Incontrare Diana De Felice, insegnante di sostegno e counselor con un ricco bagaglio di esperienze nella scuola, è stata una vera e propria sorpresa.
Un’amica mi aveva parlato del counselling presso la scuola Carlo Poerio di Napoli, e mi aveva accennato ad alcuni progetti che l’istituto porta avanti con entusiasmo e convinzione. Così, mi è sembrato interessante scoprire qualcosa in più sulla figura del counselor, abbastanza recente in Italia, formata per aiutare o supportare chiunque, per un qualsiasi motivo, si trovi in un momento difficile e, dunque, in una condizione di fragilità e di insicurezza. Il counselor è una guida, che in pochi e mirati incontri, riesce a far emergere la forza e le risorse psicologiche che sono in ciascuno di noi.
È successo allora che, davanti a un caffè e a tante domande il racconto di Diana ha preso man mano la sua strada. Accade così alle storie più belle, quelle che riguardano i ragazzi e chi con loro crea percorsi nuovi e rigeneranti.
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Il counselling a scuola: una riflessione sui comportamenti attraverso il gioco
Velia: Che cosa è il counselling scolastico? Non sapevo che fosse un approccio valido con i più giovani…
Diana: È l’approccio migliore con l’adolescente! Si tratta di una metodologia che può aiutare l’individuo, la coppia, il piccolo gruppo, il grande gruppo, addirittura l’azienda o la famiglia. Tuttavia, mentre nel counselling con gli adulti si possono aprire delle discussioni che riguardano anche il vissuto profondo, perché l’adulto ha gli strumenti per gestire le proprie emozioni, in quello con gli adolescenti si fa ricorso a dei giochi che fanno riflettere il ragazzo sulle proprie dinamiche comportamentali, ma non mettono in discussione la sua identità, perché questo potrebbe aprire una crisi.
Il nostro progetto, portato avanti con la psicologa Roberta De Martino e fortemente voluto dalla preside della scuola media Carlo Poerio, Daniela Paparella, si chiama “Una porta aperta” e si articola in dieci incontri sull’autostima, la comunicazione di gruppo, la mediazione, il non giudizio, la differenza di genere e altri temi rispetto ai quali una maggiore consapevolezza può essere di grande aiuto per un adolescente in crescita.
Tutto ha inizio con il patto del Circle time
Velia: Come si svolge allora il counselling a scuola?
Diana: La lezione di counselling si apre con un Circle time, una metodologia didattica che ha regole ben precise. All’interno di questo spazio, ogni volta che viene espresso un pensiero lo si fa con atteggiamento non giudicante: per esempio, io posso dire “non sono d’accordo”, ma non posso affermare che qualcuno sta sbagliando. E, prima di iniziare, si va a sottolineare che la risata, la gomitata, o la faccina sono un giudizio a tutti gli effetti.
Nel momento della condivisione ci si fida degli altri perché si è fatto un patto, si parla in ordine e ognuno si prende il tempo che vuole. Venti minuti o uno, non conta, si può anche non parlare, l’importante è rispettare il proprio turno e imparare a gestire la frustrazione di intervenire quando se ne ha voglia (che poi è la misura della propria maturità).
Altra regola utile a rinsaldare quel patto di fiducia è che quanto viene detto all’interno del Circle time può essere condiviso solo con i propri genitori, perché si presume che siano loro a sostenere i ragazzi in questo percorso. Invece, raccontare ad altri compagni che non hanno preso parte al cerchio i contenuti condivisi in quello spazio di fiducia, potrebbe apparire come un pettegolezzo e rischierebbe di sporcare il regalo di intimità fatto da ciascuno dei partecipanti. Donare parte del proprio vissuto agli altri è un gesto meraviglioso ed è importante sottolineare la preziosità di questi racconti e la necessità di rispettarli.
E proprio il rispetto è un elemento centrale del Circle time. Rispetto del turno, rispetto del racconto, rispetto della fiducia, rispetto delle modalità di ascolto: se qualcuno guarda altrove bisogna aspettare che anche lui sia partecipe, è fondamentale guardarsi tutti in faccia per contribuire a creare un ascolto attivo e non passivo.
Su queste premesse si crea un contesto davvero particolare per la sua intimità, soprattutto se si considera che tutto avviene in un’aula scolastica. Un contesto in cui chiamare l’insegnante per nome non sembra una nota stonata ma, anzi, in linea con il suo ruolo in quello specifico momento, cioè di una guida con il compito di restituire l’importanza delle esperienze di tutti i ragazzi che si autoformano.
Prosegue con un gioco di immedesimazione
Velia: Come si procede dopo il Circle time?
Diana: Si propone un gioco. In genere, si tratta di una simulazione di una situazione specifica, che consenta ai ragazzi di immedesimarsi per riflettere su un determinato tema.
Per esempio, in un caso in cui tale tema era stato individuato nella rabbia, abbiamo proposto la simulazione di una situazione che permettesse ai ragazzi di esplorare questa emozione: che cosa la innesca, che cosa fa provare, quali modifiche determina nel volto, nel flusso sanguigno, nel battito cardiaco, nel linguaggio, nella voce?
La simulazione chiedeva ai ragazzi, divisi in coppie, di immedesimarsi in due colleghi, uno disordinato e l’altro ordinato, che devono affrontare i problemi della convivenza nello stesso ufficio. Come reagisce il collega ordinato al disordine dell’altro?
I ragazzi, senza copione, hanno portato loro stessi nella parte. Da qui il coinvolgimento delle “loro” emozioni che ci ha fatto toccare con mano il valore dell’amicizia per gli adolescenti. Un valore enorme: qualcuno era disposto a mettere in ordine il disordine del collega perché con lui stava bene e non desiderava altro. La tolleranza di certi difetti è il prezzo che si paga per salvare un legame a cui si tiene.
Altro aspetto interessante che è venuto fuori ha riguardato la differenza, nelle relazioni, tra l’universo maschile e quello femminile: lo scontro delle donne, prevalentemente linguistico-verbale, era molto diverso dallo scontro soprattutto fisico dei maschi, che si misurano con la forza; i ragazzi si avvicinano tra di loro, le ragazze si guardano da lontano.
Osservando queste differenze abbiamo potuto riflettere tutti insieme sul linguaggio del corpo, in particolare rispetto all’emozione della rabbia, una emozione spesso trattata come un tabu e tenuta nascosta.
Per riflettere anche sull’importanza del linguaggio del corpo
Velia: Hai parlato di linguaggio del corpo…
Diana: Durante il gioco di simulazione, chi fa da guida deve sempre invitare a seguire il linguaggio del corpo, il non linguistico, perché il corpo non mente mai: la voce, lo sguardo, la vicinanza nella conversazione o, al contrario, la lontananza.
Imparando a interpretare i messaggi non verbali, i ragazzi si appropriano di uno strumento per decifrare cosa c’è dietro le parole e il linguaggio, che spesso risultano contraddittori. Gli adolescenti, che vivono l’idealizzazione dei valori, sono alla ricerca della verità, dei grandi temi, la realtà di noi adulti è invece ipocrita, non si progetta più. Se noi offriamo ai più giovani gli strumenti di lettura, loro possono riuscire a vedere il bello e il vero anche in questa realtà spenta che ci caratterizza.
Del resto le differenze tra noi e loro non sono solo anagrafiche e nemmeno solo psicologiche. Oggi le neuroscienze ci parlano di una diversità neurologica: il cervello di un quattordicenne è strutturalmente diverso da quello di un quarantenne.
Nei giovani il nucleo accumbens, una struttura molto profonda del nostro cervello, è ancora immaturo e funziona cercando velocemente la massima gratificazione sottovalutando i rischi, si nutre di avventura e di emozioni determinando nei fatti la giornata dell’adolescente. Crescendo le cose cambiano, ma nella fase dell’adolescenza, questa caratteristica neurologica del cervello ha una sua funzione ben precisa: serve per costruire e scoprire.
E concludere con la partecipazione delle famiglie, oggi e sempre più in futuro
Velia: Ritornando al progetto “Una porta aperta” che avete condotto alla scuola Carlo Poerio, come valuti i risultati che avete raggiunto?
Diana: Assolutamente positivi. Ci siamo preoccupati di restituire alle famiglie il lavoro svolto dai ragazzi e poi abbiamo invitato i genitori, tutti insieme. C’è stata una partecipazione totale. Dopo complimenti e raffronti, i ragazzi hanno invitato i genitori a fare la loro stessa esperienza, quindi hanno condotto da soli il Circle time.
L’anno prossimo ci sarà il Pon, “Un ponte tra generazioni” sul tema benessere e salute, che vedrà lavorare insieme genitori e figli, ma non nell’ambito della stessa famiglia: mamme e papà si interfacceranno con i compagni dei loro figli per sperimentare nuove dinamiche. Penso che queste persone siano coraggiose perché dovranno fare i conti con i fantasmi della propria adolescenza mettendo in discussione il loro sé adulto.
E per aggiungere anche qualcosa in più rispetto a questo primo progetto, a scuola verrà attivato uno sportello d’ascolto con uno psicologo, che lavorerà anche su gruppi classe laddove si riscontreranno dinamiche a rischio bullismo e cyberbullismo. L’idea è soprattutto quella di lavorare sulla prevenzione.
Post Scriptum: un esempio pratico di counselling sull’autostima?
Velia: Prima di concludere, ci racconteresti la lezione sull’autostima?
Diana: Con molto piacere. Abbiamo chiesto ai ragazzi che cosa era per loro l’autostima poi li abbiamo invitati ad attaccarsi alla schiena un foglio dove chi voleva tra i compagni poteva scrivere una sola parola che li definisse, solo termini positivi. Poi ognuno ha staccato il suo foglio e ha letto cosa c’era scritto. Abbiamo lasciato spazio alle prime sorprese e ai sorrisi e poi abbiamo chiesto di nuovo a tutti cosa fosse per loro l’autostima e come si sentivano dopo aver letto i complimenti che avevano ricevuto.
Ancora una volta, un aspetto interessante ha riguardato le differenze tra maschi e femmine: le ragazze si misurano sulla bellezza e sulla dolcezza, “sei carina” “sei gentile”, i ragazzi invece sulla simpatia, sulla forza o l’abilità nel calcio.
Il gioco del foglio sulla schiena, che fa ricorso ai complimenti, si presta molto bene a un esercizio sull’autostima, dal momento che questa si costruisce passando attraverso esperienze positive, mettendosi alla prova e raggiungendo l’obiettivo. E, in quei casi in cui l’obiettivo non viene raggiunto, analizzando serenamente quello che è stato fatto, per individuare ciò che ha portato al “fallimento”, al fine di non ripeterlo, ma soprattutto di trovare una spiegazione che non passi per l’inadeguatezza o l’incapacità personale – decise avversarie dell’autostima – bensì attraverso l’individuazione di quanto c’è di migliorabile.
Genitori e insegnanti, tutti noi adulti insomma, non dovremmo mai dimenticare che siamo i primi a dover credere nei nostri giovani. La critica è legittima, ma va fatta sempre sul lavoro svolto, passando il messaggio “è questo lavoro che non è ben fatto, non tu!”. I nostri giovani dovrebbero sempre poter percepire la nostra fiducia, perché “ce la possono fare”, perché “ne sono capaci”.
È solo così che avremo più chance di costruire l’autostima dei nostri figli, una vera e propria marcia in più per affrontare il futuro.
Velia: Cara Diana, parlando di emozioni ci si emoziona sempre… grazie per questi spunti di riflessione, per me ancora un altro punto di vista sull’adolescenza, l’età del possibile e dell’impossibile.
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