Tutti i bambini devono essere felici. Per questo blog che vuole continuare a parlare di bambini, di emozioni, di scuola, di relazioni, la mia amica Francesca de Robertis mi chiede di raccontare la presentazione del bel libro scritto da Antonella Meiani, organizzata nella mia città, Modena, da Antonella e da me, lei da Milano e io da qui, e finalmente svolta in questo marzo 2018. Insieme a Paolo Limonta, naturalmente.
È stato un momento bello. Breve. Un piccolo incontro in fondo, ma ricco di significato. Bello. E così, visto che ormai ho capito bene cosa mi chiede Francesca quando mi scrive Professore, mi racconti…!, mi predispongo a parlare non solo dei contenuti, ma anche – e forse soprattutto – del vissuto di quella giornata: insomma, non solo dell’informazione, non solo della realtà dell’incontro, ma della sua verità.
E siamo di colpo dove tutto è più grande, tutto è di più! D’altra parte, qui si parla di bambini. È davvero retorica se diciamo che non c’è proprio nulla di più grande di un bambino, di ogni bambino?
Gli argomenti dell'articolo
Tutti i bambini devono essere abbracciati, anche quelli dentro di noi
Mi accorgo… magari non c’entra nulla… ma mi accorgo che anche il bambino che è in me è ancora lì. E se penso a lui, se lo cerco, mi accorgo che è più grande di me, che ancora non lo riempio tutto, che la sua ricchezza resta tuttora di gran lunga maggiore di quello che io sono.
Dev’essere per questo che, andando alla stazione ad accogliere Antonella e Paolo – quello che dai bambini si fa scalare, anche a cinque, dieci alla volta, e, se c’è bisogno, li abbraccia e gli arpeggia sulla pancia come una chitarra fino a farli morire dal ridere – dev’essere per questo che, senza rendermene conto, ho pensato a quel bimbo e mi sono detto: “voglio essere abbracciato anch’io!”.
E così, quando Antonella e Paolo sono usciti dalla stazione e si sono guardati un po’ intorno, e io ho alzato un braccio facendo grandi saluti per essere riconosciuto, e ci siamo fatti incontro, e Paolo ha fatto il gesto di chi si disponeva a stringermi la mano, io la mia l’ho tirata dietro la schiena e ho detto: “No! Voglio un abbraccio!” E l’omone, il maestro Paolo, mi ha abbracciato. Un abbraccio lieto, generoso, felice. E abbiamo riso.
Antonella è rimasta come spiazzata, una specie di gelosia. Erano mesi che aspettavamo di conoscerci di persona! “Anch’io” ha detto subito. E l’abbraccio è stato bellissimo, un’intesa piena, una specie di vecchia amicizia che solo in quel momento si realizzava veramente.
Ancora una volta, il libro come oggetto mediatore
Nell’andare a piedi per il centro verso casa di mio fratello Memi – è stato lui, del Movimento di Cooperazione Educativa, a procurare il patrocinio all’iniziativa – mi viene in mente, come un flash, l’idea del libro come “oggetto mediatore”. Il concetto è un po’ tirato in questo caso, ma corretto in definitiva: è un libro, infatti, che muove tutto questo, che fa incontrare persone. E, lo sappiamo, nulla più dell’incontro qualifica l’umano. Ma non trovo nella conversazione la smagliatura per infilare l’osservazione, è troppo fitta.
A parlare sono soprattutto loro due, Paolo e Memi. Io e Antonella saltiamo su ogni tanto, troviamo qualcosa di cui ridere un momento, ci scambiamo qualche osservazione. Loro scoprono di avere in comune, in giro per l’Italia, la conoscenza di diverse persone, e ne parlano animatamente. Anche Antonella ne conosce qualcuna. Io no, ma sono affascinato da come tutto sia insieme speciale e normale.
La comunità classe: dare attenzione per riceverla
Ci sono adulti, ci sono insegnanti che non sono attenti, non hanno attenzione.
È un incipit appena perentorio, una perentoria pacatezza, una velata intransigenza che unisce il registro della spiegazione e quello dell’asserzione. È il maestro Paolo che parla nella saletta al piano rialzato della libreria Feltrinelli di Modena dinnanzi al piccolo uditorio dei convenuti, insegnanti, naturalmente. Alcuni sono “ex”. Vecchi amici che tuttavia ancora si interessano di scuola e di tutto quel che serve perché il mondo arrivi a raddrizzarsi, finalmente.
Attenti, attenzione. E ci parla di Martina, sei anni, che la madre sveglia prestissimo la mattina e si porta dietro in complicati giri per lavoro, tanto che quando la bambina arriva a scuola, per lei, la giornata è cominciata come da un tempo immemorabile. Così casca dal sonno e si addormenta sul banco.
È attento quell’adulto, quell’insegnante, che non va per le spicce a supporre di esser davanti a genitori trascurati e inadeguati, ma si interroga, insegue la cosa, capisce. È in questo modo che un insegnante è attento. E con lui – grazie a lui – lo sono tutti i bambini, tutta la classe: la compagna di banco segnala che Martina si è addormentata. Tutti fanno piano. Ecco cosa intende veramente il maestro Paolo quando parla di comunità classe .
Comunità è certo condividere un progetto comune, sapersi e sentirsi imbarcati in un’impresa che unifica le attese e le volontà, ma, più e prima di questo, comunità è avere ognuno attenzione all’altro: questo è includere.
Nel libro Antonella ritorna spesso a questo leit motiv della comunità classe. Come lei stessa ricorda a Paolo nel libro, non si tratta di “indottrinare” i bambini, di fare predicozzi: “trasmettiamo quello che è frutto non di teorie ma di vite vissute (…) se non ti vedessero fare quello che predichi, le tue rimarrebbero parole al vento. I bambini non sono fatti per i sermoni.”
Comunità classe. Se fosse una specie di unanimismo predicato, coatto, colpevolizzante, sarebbe una delle cose peggiori che possano accadere in campo educativo – a volte succede nella scuola, e la classe è una cappa di piombo, e si sprigionano conformismi ipocriti, moralismi che sono l’esatto contrario di quel che deve animare un cuore generoso, veramente includente. Tutte le cose importanti sono delicate e possono volgersi nel loro contrario.
La comunità classe: a ciascuno il suo ruolo, inclusi i genitori
Il concetto di comunità classe salta fuori anche dopo, mentre si va in trattoria passando sotto i portici della parte più vecchia della città: “…e c’è un gruppo di genitori che sono una squadra sempre pronta. Si mette in piedi quello che si vuole… È per questo che ci tengo alla comunità classe”, dice Paolo. Se ne parla, infatti, nel libro, di questo collegamento, o meglio di questa intesa con i genitori, un legame vero, autentico, tenuto vivo in tanti modi, anche con i post di Paolo su facebook, una specie di diario di bordo, diario di fatti, emozioni, mete ribadite, una cosa a cui tutti tengono molto, e che Antonella cita spesso.
È la “triangolazione perfetta”. Altro che “i genitori al loro posto”, con la sua apparente correttezza formale, istituzionale. Certo, al loro posto, e cioè a fare uno dei tre lati, quel lato lì, il loro, non quello degli insegnanti; ma il terzo lato ci vuole: fatelo voi un triangolo con due lati soltanto! È così che si riesce a fare Scuola Natura, la settimana al mare, per dire la più grande delle iniziative, ma ce ne sono tante, si fa un’infinità di cose. È anche vero che Paolo ha il pallino dell’organizzazione!
Una certa idea di scuola… col bambino al centro
Prima, all’inizio, avevo parlato io, poi Antonella. Avevo detto che nel libro lei ci parla del significato della sua vita di insegnante e, in particolare, dell’esperienza di vicinanza e collaborazione con il maestro Paolo Limonta: un personaggio notevole, come ho scritto io stesso nel volantino di invito all’incontro, un fisico rassicurante, a dispetto della mole, grazie a un sorriso convinto e convincente. E spiego che quello che qui – nel libro – è presentato, o piuttosto raccontato, non è propriamente un metodo o un modello pedagogico in senso tecnico (in realtà aspetti di metodo ci sono, eccome, che lascio scoprire a voi), ma una certa idea di scuola, al centro della quale c’è qualcosa di enorme, di semplicemente assoluto: il bambino. È così che, davanti al bambino – nella sua ricchezza, come nel suo bisogno, nella insuperabile potenza di futuro che i bambini riversano nel nostro presente – la scuola diviene per il maestro Paolo qualcosa di totale. Non un metodo, una testimonianza.
Se, alla fine, chiudendo il libro con aria pensosa, come si fa dopo una forte esperienza di lettura, ci si chiede che cosa si è imparato, che cosa ci ha insegnato sulla scuola – o per fare scuola – forse non sapremmo dirlo.
“Tutti” una utopia da trasformare in realtà
Il fatto è che questo libro non insegna: alimenta. Fa crescere in noi questi luoghi grandi, fondanti che sono la scuola, il bambino, l’insegnante, i quali diventano in noi quel che veramente sono: qualcosa di immenso. Un sogno, forse, un’utopia. È che il maestro Paolo vuole essere – e che la scuola sia – a misura di questa utopia. Per questo il bambino deve venir fuori tutto quanto, esserci in modo semplicemente intero. E il modo è quello, tra l’altro, di un’affettività piena, chiassosa, divertita (con le necessarie sfuriate quando è il momento dell’ordine perfetto) in cui i bambini – tutti! – sono assolutamente al centro.
Una utopia, appunto: il mondo deve essere bello! I bambini devono essere felici, “tutti”, ecco la parola chiave! Quella difficile parola d’ordine, che cerca faticosamente di imporsi nella scuola e nella società: non uno di meno!, è qui testimoniata in modo pieno, tenace, conseguente.
Ciò che di questa testimonianza va colto è l’intensità dell’istanza morale e ideale, non le forme, che possono essere tanto diverse quanti sono gli insegnanti che si danno da fare perché, appunto, tutti i bambini abbiano quello che devono avere, perché siano restituiti a loro stessi, alla loro pienezza, ricchezza, bellezza, al futuro che custodiscono in sé e che deve conquistare il mondo.”
Scrivere un libro per “spingere fuori” una grande esperienza
Dopo di me, brevemente, ha parlato Antonella, introdotta dalla mia domanda: “Antonella, che cosa ti ha spinto a scrivere questo libro?”
Chi, come me, lo ha già letto – e riletto – e con lei ha tenuto un contatto di qualche mese via mail e sms sa già la risposta: il desiderio, il bisogno di mettere in parole, e dunque di portare fuori, agli altri, all’esterno, la bellezza di una grande esperienza, un’esperienza di grandi significati, di grandi guadagni di consapevolezza personale e professionale, qualcosa che preme da dentro e dunque da es-primere nel senso letterale di “spingere fuori”: e cioè l’essere per tanto tempo, con passione, l’insegnante di tanti bambini e incontrare un collega come Paolo, uno che ti fa moltiplicare l’entusiasmo, ti fa credere ancora di più in quel che fai.
Il tempo è poco, come sempre, il non detto è tanto al termine dell’incontro. Ma sono certo che è passato anche quello, sebbene nel libro ci sia, naturalmente, qualcosa di più, una forza speciale, una scoperta continua, una ricerca costante, e i volti, le ingenuità, le grandezze dei bambini e dell’intreccio – attento, delicato, preoccupato, divertito – della propria azione con la loro crescita. Una crescita fatta più grande e libera dalle piccole e grandi cose della vita di una classe, una comunità classe.
Mai chiamare mancanza di impegno le difficoltà di un bambino
Eccetera. Alla fine qualche insegnante interviene. Interventi appassionati, che aprono un dialogo più che lo schema domanda/risposta dell’esperto. Sono le diciannove e trenta ormai, le cose che si sono dette sono tante. Io per esempio, tenevo molto a ricordare la frase che dovrebbe trasformarsi in una massima eterna e assoluta da scrivere in grande in tutte le scuole. La propongo con molto risalto all’uditorio. È Antonella che la scrive…
Mai chiamare mancanza di impegno la difficoltà di un bambino.
Ecco l’adulto attento, l’insegnante attento! “È intelligente, non si impegna, dunque è colpevole.” Ma per piacere! Che il bambino non si impegni è un segnale che rimanda a qualcos’altro: vacci sotto, indaga, com-prendi. Insomma: includi!
“Mai chiamare mancanza di impegno le difficoltà di un bambino.”
Eccetera. Una bella cenetta in piazzale Redecocca. E alla stazione i saluti… gli abbracci! Una bella giornata, un gran guadagno di amicizia. Gran cosa, un libro!