Per essere continui e presenti nel nostro impegno di sostenervi per la preparazione alla prova preselettiva TFA sostegno, anche oggi vi proponiamo un approfondimento utile a rispondere ad alcune domande proposte dalle università nei precedenti cicli. Dopo aver parlato di hot cognition e di Piano Educativo Individualizzato, oggi vogliamo dedicare una riflessione al problematicismo pedagogico di Giovanni Maria Bertin e di Franco Frabboni.
Gli argomenti dell'articolo
Il problematicismo in filosofia: il pensiero di Antonio Banfi
Con il termine “problematicismo” si fa riferimento a un orientamento della filosofia contemporanea che si sofferma sulla problematicità di ogni concezione metafisica, che cerchi cioè di spiegare la realtà prescindendo dai dati provenienti dall’esperienza. Per il problematicismo, infatti, l’esperienza svolge un ruolo centrale nella conoscenza e ha in sé una sua problematicità, in quanto si pone come il risultato dell’integrazione di due elementi, l’io e il mondo, che, a prescindere dalle innumerevoli possibili identità che possono assumere, restano distanti e reciprocamente opachi (cioè non riescono a “vedersi” l’un l’altro con assoluta trasparenza e nella loro integrità) e sono quindi destinati a integrarsi in un modo che è sempre approssimativo e parziale.
Proprio per questa ragione – cioè la dipendenza della conoscenza dall’esperienza e le caratteristiche non assolute dell’esperienza stessa – il problematicismo nega la possibilità di un sapere certo e definitivo e ritiene che ogni determinazione del sapere stesso deve essere colta nel suo sviluppo libero e concreto, senza pretendere di catalogarla in categorie assolute che perdono il contatto con la realtà.
Uno dei maggiori contributi al problematicismo filosofico in Italia è quello di Antonio Banfi, il quale, in opposizione all’idea di una ragione intesa come un qualcosa di cristallizzato in delle rigide categorie prefissate, si fa portavoce di un’idea di razionalità che si pone come obiettivo quello di svolgere una funzione critica nei confronti del sapere e di superare le conoscenze particolari per organizzarle in delle strutture di conoscenza organiche.
Il problematicismo pedagogico di Giovanni Maria Bertin
Questa visione di Banfi sulla conoscenza, sull’esperienza, sulla ragione costituisce il nucleo fondante della proposta pedagogica del suo allievo Giovanni Maria Bertin, il quale porta l’idea centrale del problematicismo all’interno dell’esperienza pedagogica e lega così il suo nome a quel filone di studi che prende il nome di “problematicismo pedagogico”.
Partendo dalla problematicità dell’esperienza pedagogica, infatti, Bertin si fa portatore di un’idea di educazione alla ragione, una ragione intesa – proprio come nel pensiero di Banfi – come una razionalità critica che si pone l’obiettivo di indagare e di interpretare il sapere e l’agire in chiave operativa, progettuale, di ricerca. Secondo Bertin, infatti, l’età contemporanea ha il compito di educare l’uomo razionale, cioè una persona che deve poter operare in un mondo pervaso dalla tecnologia e dallo sviluppo industriale di cui vive le contraddizioni e le sfide.
Tale idea di educazione assume una forma compiuta nel testo del 1968, in cui Bertin esprime la sua visione pedagogica già nel titolo: Educare alla ragione. In quest’opera, fondamentale per comprendere il cuore del problematicismo pedagogico, l’autore affronta un’analisi della società del tempo che, uscita distrutta dalla seconda guerra mondiale, si trova pienamente immersa nella guerra fredda, nel razzismo, nei conflitti tra classi sociali, nel consumismo, mettendo l’essere umano in una generale condizione di malessere psicologico, sociale, culturale.
Da ciò, la necessità imprescindibile, per Bertin, di riformare i sistemi educativi, che devono essere capaci di educare l’uomo alla ragione e all’impegno personale, attraverso un’educazione che non sia solo intellettuale, ma anche etico-sociale, affettiva, estetica, fisica e professionale e sviluppi dunque tutte queste dimensioni fondamentali dell’essere umano, per renderlo capace di apprendere e conoscere, di realizzarsi nel rispetto di se stesso e degli altri, di riconoscere e gestire la propria e altrui affettività fatta di desideri e aspirazioni, di formare il proprio gusto estetico e costruire abitudini di vita sana, di acquisire efficienza e abilità nel lavoro e di impegnarsi eticamente, con responsabilità e autonomia in tutti gli ambiti della sua vita individuale e sociale.
In questa per niente semplice ma necessaria “educazione alla ragione”, per Bertin, svolge un ruolo fondamentale l’insegnante, il quale deve sapersi porre come un modello che, attraverso la propria conoscenza del mondo, deve essere capace di filtrare i modelli educativi – e talvolta diseducativi – provenienti dalla società, creando degli ambienti di educazione positivi, che cioè sappiano favorire la cooperazione, lo sviluppo di interessi personali, il rispetto, l’originalità, la responsabilità, la capacità di affrontare i problemi. Allo stesso tempo, l’insegnante, grazie alla propria capacità di ascolto e comprensione, deve saper cogliere l’individualità e le potenzialità dei suoi studenti creando un clima di cordialità che favorisca il confronto e riduca i conflitti.
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Il “problematicismo pedagogico applicato” di Franco Frabboni
Il pensiero di Bertin trova un ulteriore sviluppo in quello del suo allievo Franco Frabboni, il quale, nello scritto Il problematicismo pedagogico, tenta una “rilettura del mosaico scientifico” del maestro per “identificare i nuclei concettuali che illuminano le due facce della luna che danno profilo al Problematicismo pedagogico” di Bertin, consapevole che, pur svolgendola “in punta di piedi” e con il sostegno “dei densi scritti” dell’autore, non gli è possibile escludere la propria dimensione interpretativa nel descrivere l’idea di educazione che intende ricostruire.
Del resto, è proprio questa dimensione interpretativa che consente a un pensiero, a una visione, di procedere verso ulteriori sviluppi. Ed è esattamente quello che succede al problematicismo pedagogico di Bertin, che Fabbroni accoglie e personalizza con il proprio contributo.
In particolare, Frabboni sperimenta il problematicismo pedagogico di Bertin applicandolo in rapporto a numerose questioni socio-educative, sia scolastiche, come il tempo pieno, la scuola aperta, la scuola dell’infanzia o il curricolo, sia extrascolastiche, come il sistema formativo integrato, i servizi educativi territoriali, l’educazione permanente o il tempo libero. Ed è proprio dal confronto del problematicismo con i problemi della pratica educativa che il suo pensiero si pone come un ulteriore sviluppo di quello di Bertin.
Nella visione di Frabboni, dunque, vive un’unione tra teoria e pratica applicativa spiegata molto efficacemente da Franco Cambi in Il “problematicismo pedagogico applicato” di Franco Frabboni, quando scrive che “la pedagogia di Frabboni ha alla base un preciso modello teorico, ma ha anche, come suo contrassegno specifico, un’applicazione di tale modello al tessuto sociale e formativo dell’educazione” e aggiunge che “nel pensiero di Frabboni si è costituita una sequenza compatta e strutturale tra teoria e educazione, tra scuola e didattica”.
Come chiarisce, infatti, lo stesso Frabboni in Il problematicismo pedagogico:
“i modelli educativi non possono restare in surplace: immobili a contemplare estasiati i raggi radiosi (e inaccessibili) dell’utopia. Al contrario, l’educazione implica il “disincanto”: parliamo della sfida dell’esperienza quotidiana alla complessità e alla problematicità, con il relativo carico di cifre demoniche di nome azzardo, avventura, scacco e naufragio”.
Per Frabboni sono proprio i fatti dell’esperienza “che alimentano di linfa vitale il bosco delle scienze dell’educazione, le cui piante portano il nome (oltre a quello “antico” di Pedagogia) di Psicologia, Sociologia, Antropologia e Didattica”.
Non a caso dunque, nel testo Il problematicismo in pedagogia e didattica, lo sguardo di Fabbroni si rivolge con grande attenzione a due di queste “piante”, la Pedagogia, “pianta biblica che ospita la Persona che sta alla rotonda dove si rincorrono i tempi della vita”, e la Didattica, “neoscienza dell’educazione”. Il problematicismo che “applica”, dunque, non è solo pedagogico, ma assume la forma di quel “problematicismo didattico” teso alla ricerca di una didattica fondata su principi razionali. Una didattica, cioè, che sappia farsi valere da “efficace termostato metodologico, da prezioso regolatore problematico e antidogmatico”, capace di “mettere in guardia l’insegnante qualora stesse praticando percorsi di istruzione normativi e assiomatici”. Ed è proprio questo problematicismo didattico che deve, per Fabbroni, trovare, nella scuola, lo spazio per fornire alle giovani generazioni un’alfabetizzazione compiuta, perché intesa come formazione lungo l’intero arco della vita, e robusta, perché sostenuta da solide gambe culturali, sociali e civili.
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