L’educazione non si insegna, si respira.
Avete presente quegli incontri che vi lasciano sazi? Che, già mentre li state vivendo, vi fanno sentire dentro un miscuglio tra felicità e calma, curiosità e soddisfazione? Sono certa di sì. Più o meno a tutti capita di sperimentarli. C’è chi li prova più spesso e chi più raramente, ma a ciascuno – e anche di questo sono certa – ben presto viene voglia di raccontarli.
Ebbene, è proprio quello che è successo a me quando ho incontrato Elisabetta Rossini ed Elena Urso. Già mentre chiacchieravo con loro nello studio caldo e pieno di libri in cui mi hanno accolto, sentivo che qualcosa di bello stava accadendo: le parole creavano ponti tra di noi e, su quei ponti, i nostri pensieri camminavano per connettersi ed espandersi.
Mentre tornavo a casa ho lasciato che quelle parole, insieme alle emozioni che avevano suscitato, viaggiassero nella mia mente, perché fossero assorbite, profondamente. Le ho ripensate, fatte mie e, solo ora, sono pronta a raccontarvele, perché penso che possano avere su di voi lo stesso effetto avuto su di me. E anche perché penso che siano parole sulle quali tutti noi adulti dovremmo riflettere, soprattutto se abbiamo il compito di educare, soprattutto se vogliamo svolgerlo con consapevolezza, soprattutto, se vogliamo comprendere – senza ansie – quanto è grande la responsabilità che abbiamo nei confronti dei piccoli che stiamo crescendo.
Così, dopo averci pensato e ripensato, ho deciso che non voglio riportarvi una versione ridotta e interpretata di quello che Elisabetta ed Elena mi hanno detto. Voglio invece condurvi con me in quella stanza accogliente e piena di libri, farvi ascoltare il tono calmo, professionale e appassionato con cui queste due belle e raffinate donne hanno risposto alle mie domande, permettervi di “viverle”, quanto più mi è possibile fare attraverso il mio racconto, perché il mio incontro con loro possa diventare il vostro.
Vuole essere, questo, il mio modo per presentarvele, perché Elisabetta ed Elena hanno accettato il mio invito a scrivere per il nostro blog A scuola di emozioni, e nei prossimi mesi condivideranno con noi quella ricca esperienza di pedagogiste e consulenti familiari che quotidianamente costruiscono a stretto contatto con le famiglie che a loro si rivolgono con fiducia e speranza.
Poiché però abbiamo parlato per più di un’ora, gli argomenti che abbiamo affrontato sono stati tanti, e tutti ugualmente interessanti. Per dedicare a ognuno lo spazio che merita, allora, ho deciso di suddividere la nostra conversazione in “episodi”, tanto per importare anche sui blog il gergo delle serie tv così amate oggi.
Ecco il primo! Parliamo di esempio, in particolare, di come “educare con l’esempio”. Perché se vogliamo davvero fare qualcosa per il futuro, dobbiamo partire da un punto che non è lontano, né nel tempo né nello spazio, e quel punto siamo noi stessi.
Gli argomenti dell'articolo
Il nostro esempio: naturale o strutturato, ma sempre determinante
Francesca Vorrei cominciare la nostra chiacchierata citando una pagina dell’ultimo libro che avete pubblicato con l’editore Edicart, L’educazione è una forma d’amore. E dura per sempre…
Imparare a scegliere, sapere cosa fare e cosa non fare, poter esprimere le proprie emozioni e il proprio pensiero sono tutte forme di libertà. Tutte acquisite attraverso l’educazione di chi si prende cura con amore dei bambini.
C’è, in questa vostra definizione di educazione, un aspetto che mi colpisce. E non parlo della libertà, che pure mi sembra un elemento di grande importanza, un obiettivo nobile e auspicabile da raggiungere. Quello che a me fanno venire in mente le vostre parole però, prima di ogni altra cosa, è l’esempio.
Siete d’accordo? Quanto conta l’esempio che noi genitori possiamo offrire ai nostri bambini per guidarli nel raggiungimento della propria, libera, autonomia? Secondo la vostra esperienza con le famiglie, c’è consapevolezza rispetto all’impatto che i comportamenti di noi adulti, i nostri modi di reagire alle situazioni, la gestione che abbiamo delle nostre emozioni hanno sulla formazione delle piccole persone di cui siamo responsabili?
Elena Per quanto riguarda l’esempio, ovviamente, la risposta è secca: sì, siamo d’accordo! E si tratta di una cosa complessa, come già la tua domanda lascia intuire. Nel senso che occorre fare una distinzione tra un tipo di esempio “naturale”, cioè quello del “come si è”, ovvero come ci si comporta in famiglia, con gli amici, nelle relazioni sociali, e un esempio più “strutturato”, cioè quello che dovrebbe nascere dalla consapevolezza – non così diffusa – di quanto sia fondamentale l’esempio stesso, una consapevolezza che dovrebbe spingere a porre attenzione nel calibrare il proprio comportamento, non solo quando è direttamente rivolto ai bambini, ma anche quando è indirizzato alle altre persone, pensando che, quando nasce un piccolo, c’è un pubblico.
Questa è la parte un po’ più difficile. E l’obiezione che spesso viene fatta è “si manca così di spontaneità”. Una obiezione che però spinge a fare un’altra riflessione, cioè che la spontaneità va bene quando siamo tra adulti, persone già capaci di decodificare, non è un valore assoluto invece quando siamo con i bambini, che la capacità di decodificazione dei comportamenti devono ancora svilupparla.
Come ben sappiamo tutti, tra l’altro, non sempre la spontaneità va bene anche tra adulti. Che ci relazioniamo con “grandi” o con “piccoli”, dobbiamo sempre tener presente che noi siamo naturalmente fatti in un certo modo – che va bene – ma siamo anche cultura. E invece c’è pochissima consapevolezza rispetto a questa doppia componente della nostra identità, e la stessa scarsa consapevolezza c’è anche in merito a quanto l’esempio sia determinante.
Spesso si ha un aspetto molto fusionale con i bambini, per moltissimo tempo, e rispetto a moltissime cose, per esempio farli dormire nel lettone o imboccarli ancora anche quando sarebbero in grado di farlo da soli. Nel momento in cui invece i piccoli, crescendo, manifestano opposizioni o, semplicemente, la formazione della loro personalità, allora i genitori sono bravissimi a scindere e a dichiarare: “il bambino ha un problema!”. Il problema quindi è suo.
Per educare con l’esempio, partiamo da noi stessi
Elena E così, se il bambino risponde male, il genitore si domanda cosa sta succedendo e arriva alla conclusione che suo figlio sta sviluppando un carattere eccessivamente oppositivo, oppure maleducato. È questo il momento in cui non si riesce più a mettere in connessione se stessi e l’esempio dato con il comportamento al quale si sta assistendo. Non si riesce a fare una riflessione che è invece necessaria, e cioè che, se quel bambino deve cambiare atteggiamento, il primo a doverlo fare è proprio il genitore. Ma si tratta effettivamente di una cosa difficilissima da comprendere. Anche perché, davvero, bisognerebbe fare tutto un percorso di rivisitazione di sé e cominciare a realizzare che è da lì che si deve partire.
Finché l’esempio è naturale e i figli assorbono determinati comportamenti, abitudini, valori, è più facile. L’esempio da strutturare, invece, richiede uno sforzo, anche solo di riflessione, che costa un po’ più di fatica.
Francesca Sì, perché bisogna mettere in discussione se stessi e, probabilmente, anche l’esempio che si è avuto a propria volta, in famiglia. La mia percezione è che comunque questo secondo passaggio, verso un esempio più strutturato, è ancora per molti di noi da realizzare e anche chi lo ha realizzato deve capire bene come poi tradurlo in concreto. Questa mi sembra un’altra parte molto difficile. Delle volte ci sono tante buone intenzioni, però il risultato tarda ad arrivare, perché c’è da fare un lavoro duro, ma sono anche convinta che ne valga la pena perché l’esempio educa mille volte di più delle parole.
Elisabetta Quello che non dobbiamo mai dimenticare è che i bambini sentono se noi diciamo una cosa e poi nei fatti facciamo tutt’altro. E fin da quando sono molto piccoli. All’inizio è una sensazione, che man mano diventa una consapevolezza. Per cui, se non ci comportiamo come diciamo, cioè coerentemente con le nostre parole, i bambini ci smascherano subito.
Per educare con l’esempio, buttiamo via la maschera
Ed è con questa frase – “i bambini ci smascherano subito” – che voglio concludere il primo episodio di questa conversazione. Perché, prima di raccontarvi quello che Elena ed Elisabetta mi hanno detto in merito al ruolo dell’esempio nell’educazione emotiva – cosa che farò prossimamente –, voglio soffermarmi con voi sul concetto di maschera.
A volte mi sembra che, quando diventiamo mamme o papà, scegliamo immediatamente di indossarne una. Costruita, proprio come piace a noi, su un modello di genitore perfetto, infallibile, quasi un supereroe con tanto di mantello e poteri eccezionali, che combatte contro i “cattivi”, tra cui, troppo spesso, finiscono anche gli stessi bambini.
Ma, per quanto sofisticato possa essere il “costume” che abbiamo scelto per proteggere la nostra identità segreta, abbiamo in casa la più potente macchina della verità mai esistita e mai eguagliata: i nostri figli. Come ci dicono Elena ed Elisabetta, i bambini sentono quello che sentiamo noi, e – aggiungo io – lo sentono ancor prima che noi stessi sentiamo di sentirlo.
Sentono, sentiamo, sentirlo… non è la coniugazione del verbo sentire su cui vorrei riflettere. È invece un concetto, legato alla percezione che abbiamo di noi stessi e del mondo, legato all’ascolto pulito, privo di ansie e di paure, privo di pregiudizi, l’unico ascolto che può davvero creare con i nostri figli un dialogo fatto non solo di parole, ma anche di comportamenti coerenti con il ricchissimo mondo emotivo che abbiamo dentro.
Non è certo facile! Ma io sono sinceramente convinta che educare un figlio non è solo un meraviglioso compito costellato di tutte le emozioni possibili. È innanzitutto una occasione, quella di diventare delle persone migliori.