Parlare di relazione educativa significa addentrarsi nel complesso sistema di competenze e conoscenze che costituiscono il saper fare e il sapere essere del docente. Nella storia della scuola, la relazione educativa, come oggi la intendiamo, può essere considerata una conquista. Fino a qualche anno fa non ci si poneva in modo così significativo il problema del rapporto docente-discente e la qualità di un docente veniva misurata in base alla sua capacità di portare a termine un compito di “erudizione”, di trasferimento del sapere, senza che venisse previsto un processo di rielaborazione da parte del soggetto.
L’etimologia della parola educare richiama il latino ex-ducere, che significa condurre fuori. La prima domanda allora da porsi è cosa un docente deve condurre fuori? Per i nostri predecessori, ex-ducere voleva dire tirare fuori da ciascuno tutto ciò che poteva essere utile alla maturazione di un individuo, in modo da renderlo cittadino attivo e protagonista della propria vita e di quella della società in cui viveva. È evidente che in un punto non ben precisato del percorso, vi deve essere stata una deviazione, poiché sembra che educare oggi venga inteso da tutti come quel processo attraverso cui un docente, trasferisce le proprie conoscenze ad un discente che le apprende.
Gli argomenti dell'articolo
“Intelligere”: un processo alla base dell’apprendimento
La Professoressa Daniela Lucangeli, Ordinario di psicologia nell’Università di Padova e tra i massimi esperti di apprendimento, ha sottolineato più volte, come si preferisca parlare di intelligere e non di intelligenza per spiegare i meccanismi alla base dell’apprendimento. Intelligere è un processo, una dinamica complessa che consta di tre fasi.
- Nella prima fase incameriamo ciò che non conosciamo, ovvero acquisiamo nuove conoscenze
- Nella seconda fase tiriamo fuori ciò che abbiamo appreso
- Nella terza, trasformiamo ciò che abbiamo appreso rielaborandolo attraverso le strutture di conoscenza
Secondo Lucangeli, questo terzo momento dell’intelligere è il più significativo, poiché è in questa fase che il potenziale creativo del cervello si esprime, ed è in questa fase che realmente un individuo metabolizza ciò che ha appreso in modo del tutto personale. Le neuroscienze ci richiamano oggi, anche in campo educativo, ad una maggiore attenzione ai processi di apprendimento e rispondono anche alla domanda che ci siamo posti:cosa tirare fuori?
Oggi sappiamo che la differenza tra ciò che un soggetto sa fare da solo e ciò che è in grado di fare con l’aiuto ed il supporto di una persona più competente, viene definita “zona di sviluppo prossimale”. Significa, in poche parole, che un ragazzo che viene guidato nell’apprendimento attraverso strategie adeguate e il più possibile personalizzate, potrà sviluppare un potenziale ancora inespresso ma in potenza.
Fu Aristotele il primo a citare il concetto di divenire, cioè il concetto di passaggio dalla potenza, ovvero dalla possibilità di una materia di assumere una determinata forma, all’atto, ovvero la realizzazione di tale capacità. Questo concetto è oggi estremamente attuale e rapportabile alla dinamica educativa nella scuola. Il ruolo del docente diventa proprio quello di intercettare questo processo e favorirlo.
Come Aristotele, molti altri si sono interrogati sui meccanismi che consentono ad un individuo di effettuare un passaggio maturazionale. I dubbi si concentravano sul concetto di determinismo, ovvero se ciò che diventiamo dipende dal nostro corredo genetico o piuttosto dalle influenze ambientali. Negli anni ’30, Vygotsky e poi ancora Piaget, si posero questi interrogativi in ambito psicologico, legandoli al concetto di apprendimento. Ed è proprio Vygotsky che parlò di zona di sviluppo prossimale.
Le ricerche scientifiche
Le ultime ricerche scientifiche sembrano confermare ciò che già Vygotsky aveva intuito, cioè che le esperienze postnatali influenzano la formazione di ramificazioni dendritiche e sinapsi, e “scolpiscono” il cervello. Ciò significa che le relazioni umane influenzano la creazione di connessioni sinaptiche tra le cellule nervose (plasticità neurale).
La biologia molecolare è addirittura arrivata a fotografare i neuroni e in particolare la plasticità neuronale. Il Dott. Della Sala, esperto di cognizione cerebrale e Ordinario di Neuroscienze all’Università di Edimburgo, ha dimostrato, attraverso le sue ricerche, che dalla relazione educativa dipende un parte significativa di ciò che il soggetto può sviluppare.
Il docente viene spesso messo nelle condizioni di dover corrispondere a diverse individualità che costituiscono un gruppo classe sempre più grande e disomogeneo. Le problematiche psicologiche individuali legate alla crescita non sono più quelle di 10-15 anni fa, e questo aspetto comincia a diventare palese ai giorni nostri, perché viene richiesta al docente una competenza nell’ascolto sempre più complessa e specifica.
Parallelamente, le normative ministeriali impongono rigore e rispetto dei tempi di insegnamento, al fine di garantire l’appropriatezza del programma. Dunque, in un’epoca in cui si parla di comunicazione, si incentiva l’ascolto, ci si aspetta la relazione educativa, è proprio la relazione educativa ad essere la parte penalizzata dal sistema.
Sempre dalle ricerche scientifiche, sappiamo che ad esempio “ Il sorriso è uno dei meccanismi innati di joint attention, cioè di attenzione condivisa tra figure significative, insieme allo sguardo occhi negli occhi” (Lucangeli). Da una complessa ricerca americana che valutava proprio l’importanza del sorriso nella plasticità di funzione, è emerso che nella relazione tra docente e studenti, chi aveva utilizzato il sorriso come mediatore di diverse azioni educative (incoraggiare, rimproverare, accompagnare), aveva sollecitato nei propri studenti una maturazione di diverse competenze.
Sottoposti a test di diverso tipo, che misuravano intelligenza, motivazione, lettura attenzione, memoria, gli studenti che avevano sperimentato il sorriso come mediatore di funzione, avevano ottenuto punteggi straordinari. Parallelamente, resistenza alla frustrazione, impegno, attribuzione di competenza erano cresciuti in valore. Questi risultati dimostrano come attraverso il sorriso si possa attivare una forma straordinaria di alleanza educativa.
Incoraggiare l’allievo: il ruolo del docente
Sempre la Professoressa Lucangeli, in diversi suoi interventi, ha sottolineato anche il ruolo dell’incoraggiamento. Incoraggiare un allievo, anche e soprattutto in quelle situazioni in cui vi sia l’errore, vale più di tutti i rimproveri. È importante ad esempio richiamare il docente alla comprensione del meccanismo dell’impotenza appresa.
Vi sono ragazzi che credono di non poter migliorare ed apprendere, che si convincono della loro incapacità, e semplicemente gettano la spugna: è questa una delle cause più frequenti di abbandono scolastico. Per costruire un meccanismo di impotenza appresa, un ragazzo deve aver sperimentato diversi anni di insuccesso in una o più aree. La maggior parte dell’impotenza appresa, sempre secondo gli studi scientifici, è maturata nelle competenze e abilità logico-matematiche, ma è un meccanismo che riscontriamo anche nel resto delle aree di apprendimento.
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Un docente che utilizza come meccanismo di correzione dell’errore la disconferma e non attiva mediatori relazionali efficaci, non solo non potrà ottenere nessun miglioramento ma inibirà un possibile apprendimento. Quando si sperimenta un grado di frustrazione e di paura eccessivi, a livello fisiologico il cervello invia infatti un segnale di pericolo che può determinare una reazione di ansia, di paura o di blocco.
Queste espressioni di disagio psicologico (ansia, paura e blocco), sono estremamente presenti nell’attuale generazione di adolescenti e, peggio ancora, già alle scuole medie ed elementari si registra un quantitativo inaspettato di casi di ansia e fobia scolare. Quando si innesca questo meccanismo la scuola viene vissuta come un nemico che incrementa i meccanismi di errore piuttosto che sviluppare il potenziale.
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