Ci sono fenomeni, nel mondo del lavoro, che ciclicamente attraversano orizzonti sociali e culturali, modificando radicalmente la percezione di chi di lavoro si nutre ogni giorno.
Uno di questi fenomeni, che da un paio d’anni ha suscitato l’interesse di generazioni di lavoratori, disoccupati e studenti, prende il nome di Great Resignation, che tradotto in italiano diventa un poco confortante “Grande Dimissione”.
Secondo quanto riportato dalle statistiche attuali, sempre più persone lasciano volontariamente il posto fisso anche senza averne un altro che vada a sostituire il precedente. Questo aumento spropositato di dimissioni, un po’ in tutti i settori professionali, è lo specchio di una frustrazione diffusa e riflette l’insoddisfazione quasi cronica per il proprio lavoro che non riesce ad appagare i desideri di vita e le ambizioni personali e professionali dei lavoratori stessi.
Gli argomenti dell'articolo
Perché i giovani non ambiscono più al posto fisso?
Ormai non è più solamente lo stipendio a “dettare legge” nel mondo del lavoro, almeno non in modo assoluto, e l’ago della bilancia si sta spostando sempre più spesso, soprattutto nei lavoratori delle generazioni più giovani, verso ideali meno legati alla retribuzione, prediligendo invece una maggiore attenzione alla qualità della vita e del proprio tempo libero.
Secondo un monitoraggio condotto da Randstad Italia, multinazionale olandese con agenzie per il lavoro capillari nel territorio italiano, più del 30% di giovani lavoratori sarebbe alla ricerca attiva di un nuovo impiego; ciò si traduce nel fatto che quasi un lavoratore su tre non è soddisfatto del proprio impiego.
È una percentuale che necessita attenzione e sono numeri destinati a salire se prendiamo ad esempio la fascia d’età compresa tra i 18 e i 24 anni (38% del campione oggetto dello studio) oppure la generazione di lavoratori tra i 25 e i 34 anni (quasi il 50%) che ammette neanche troppo velatamente che sarebbe disposta ad un immediato abbandono del posto a tempo indeterminato qualora le condizioni legate alla qualità della vita extra lavorativo non fossero soddisfacenti.
Il fenomeno delle Great Resignation, chiamato anche Big Quit in alcuni contesti, non è solamente un fenomeno di rilevanza sociale che tange un altissimo numero di lavoratori, ma crea un’enorme crepa all’interno del sistema aziendale nazionale, un disagio di tali proporzioni da ridisegnare in qualche modo schemi e processi di selezione del personale che sempre più spesso vengono trasformati dall’interno, dovendo affrontare nuove necessità e richieste da parte dei candidati in termini di flessibilità, formazione e percorsi di carriera mirati al benessere personale.
Secondo Claudia Barberis, business coach dedicata al mondo del personal branding per imprenditori e professionisti:
«Queste grandi dimissioni sono un fenomeno sistemico che è esploso oggi, ma era in preparazione già da diversi anni: il mondo del lavoro per come è stato tradizionalmente inteso e organizzato non risponde più alle necessità e ai desideri dei lavoratori attuali, soprattutto i più giovani. Fino a qualche anno fa si decideva di cedere sulla soddisfazione personale a favore della sicurezza: ora che anche quest’ultima non è più garantita, vale davvero la pena non provare a realizzarsi?»
«Il mondo è cambiato: il 2021 è stato il primo anno in cui nel mondo le ricerche di “come avviare un’attività” hanno superato quelle di “come trovare un lavoro”. È un vero e proprio capovolgimento di paradigma. Con la pandemia la gente ha cominciato a non accettare più una serie di condizioni a cui prima sottostava pensando di non avere altra scelta: oggi questa nuova scelta esiste e per tanti l’opzione migliore è ricominciare da capo.» (Maurizio Carucci, I dati. Boom di dimissioni volontarie dal lavoro nel secondo trimestre del 2021, su avvenire.it, 21 gennaio 2022)
Le cause effettive del fenomeno delle Great Resignation
Le motivazioni che stanno alla base del malcontento sempre più diffuso di cui abbiamo parlato sono inizialmente ed indiscutibilmente di natura economica, ma non in senso assoluto: il disagio che serpeggia tra i lavoratori accomunati dal desiderio di cambiare impiego non è dovuto alla retribuzione sotto dimensionata rispetto ad altri standard europei, ma alla mancato aumento di questa stessa retribuzione lungo il percorso professionale durante gli anni di servizio all’interno della propria azienda.
Poca flessibilità aziendale e mancanza di benefit
Altri elementi che influiscono riguardano la flessibilità aziendale e la mancanza di benefit: nel primo caso ad incidere è l’errata ed insicura gestione dei turni dei lavoratori che troppo spesso si ritrovano a rincorrere orari decisi all’ultimo momento dall’azienda, senza lasciar spazio alla consapevolezza di quest’ultima che la qualità del tempo extra lavorativo può influire decisamente sulla produttività al lavoro dei dipendenti stessi.
Nel secondo caso, la mancanza di incentivi aziendali, i cosiddetti benefits (welfare), colpisce quasi il 48% dei lavoratori, i quali cercano nuovi stimoli al di fuori della propria realtà professionale.
Quello che sta accadendo in Italia negli ultimi anni, soprattutto dalla pandemia in avanti, sembra paragonabile a ciò che successe nel nostro Paese negli anni ’60 del secolo scorso, quando l’attenzione globale rivolta al valore della persona oltre il lavoro ebbe il sopravvento e portò come destinazione ultima alla redazione dello Statuto dei Lavoratori nel 1970.
Vedremo se questa nuova rivoluzione culturale all’interno del mondo del lavoro sarà in grado, dopo più di cinquant’anni, di istituire nuovi orizzonti all’interno delle organizzazioni aziendali.
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