Il programma d’esame del TFA sostegno didattico è molto vasto, gli argomenti da studiare sono tanti e, in alcuni casi, piuttosto complessi, ecco perché, per voi che avete deciso di diventare insegnanti di sostegno, è importante scegliere gli strumenti giusti per prepararvi efficacemente e per ottimizzare il tempo di cui disponete.
Proprio per offrirvi un altro strumento utile, che va ad aggiungersi alla nostra proposta editoriale per la preparazione al TFA sostegno didattico, noi di Edises abbiamo creato questa pagina in cui sono raccolte le domande più frequenti che ci vengono poste, sui nostri canali social, da chi ci ha scelti come partner nella propria preparazione. In particolare, realizzare questa pagina è stato possibile grazie agli utenti del nostro gruppo Telegram di studio e di informazione dedicato al TFA, che hanno posto e continuano a porre domande utili per chiarimenti e approfondimenti alle quali, ogni giorno, risponde direttamente la nostra redazione, avvalendosi anche della consulenza dei nostri autori, in un clima sereno e costruttivo.
A tal proposito, se ancora non ne fate parte, unitevi a noi quanto prima cliccando sul banner qui sotto!
Gli argomenti dell'articolo
Il programma ministeriale per il TFA sostegno didattico
Poiché si tratta di una pagina in continuo aggiornamento, le cui domande spaziano nell’intero programma ministeriale, per agevolarvi nella ricerca e nella consultazione, abbiamo pensato di suddividerle nelle quattro aree tematiche individuate dal Ministero e specificate nell’Allegato C al Decreto Ministeriale del 30 settembre 2011, che abbiamo esemplificato nell’immagine qui sotto e analizzato più approfonditamente in questo articolo.
Faq sul programma d’esame del TFA: area socio-psico-pedagogica
Vediamo di seguito quali sono le domande più frequenti sulla parte di programma dedicata all’area socio-psico-pedagogica.
– Qual è la differenza tra prove criteriali e prove normative secondo Robert Glaser?
Nell’ambito della valutazione Robert Glaser, in un articolo del 1994, spiega la distinzione tra prove normative e prove criteriali da lui proposta già nel 1963 nel testo Tecnologia didattica e misurazione dei risultati di apprendimento: alcune domande. In questo articolo, dà innanzitutto una definizione di “valutazione dei risultati” la quale è “la valutazione dei comportamenti finali” che coinvolge l’accertamento delle caratteristiche della performance dello studente rispetto a precisi standard. Secondo Glaser, “questo tipo di valutazione si differenzia dalla valutazione dell’attitudine in quanto utilizza degli strumenti specificamente studiati sulle caratteristiche e sulle proprietà della performance presa in esame”. Al contrario, “la valutazione dell’attitudine deriva il proprio significato da una relazione verificata tra una prova specifica e il futuro conseguimento di altrettanto specifiche conoscenze e abilità”. In ogni caso, “i risultati ottenuti da un test di valutazione forniscono principalmente due tipi di informazioni”:
1) il livello con il quale lo studente ha conseguito gli obiettivi della performance, per esempio se riesce “a preparare una soddisfacente relazione su un esperimento” o “risolvere un certo tipo di problemi di aritmetica”;
2) l’ordine relativo che si stabilisce tra gli studenti in base ai risultati raggiunti, per esempio, “se lo studente A riesce a risolvere un problema più velocemente dello studente B”.
La differenza fondamentale tra questi due tipi di informazione risiede nello standard usato come riferimento che è diverso e determina due tipologie di prove differenti. Quelle che Glaser chiama le “valutazioni o prove criteriali” fanno riferimento a uno standard di qualità assoluto, si basano sul concetto di continuum dell’acquisizione della conoscenza e descrivono come lo studente si colloca lungo tale continuum, che varia da una competenza nulla a una performance perfetta. Le altre, che chiama “valutazioni o prove normative” dipendono, invece, da uno standard relativo e descrivono come si colloca la capacità dello studente rispetto a quella di altri studenti
– Quali sono i punti in comune e per cosa si distinguono collaboration e cooperative learning?
Punti in comune:
– entrambe sono delle attività di apprendimento cooperativo, in cui si “opera insieme” per raggiungere un obiettivo di apprendimento svolgendo il compito assegnato;
– entrambe presuppongono la divisione della classe in piccoli gruppi (da 2 fino a un massimo di 5 studenti);
– entrambe favoriscono il confronto e le relazioni tra i membri del gruppo e hanno benefici effetti sull’apprendimento.
Differenze
La differenza sostanziale sta nel fatto che, mentre nelle versioni più diffuse di cooperative learning a ciascun membro del gruppo viene assegnato un compito specifico di cui è responsabile e di cui si deve dunque occupare approfondendolo da solo per poi mettere a disposizione del gruppo quanto ha appreso o svolto, nella peer collaboration non c’è una scomposizione del compito in più aspetti, ma tutti gli studenti lavorano in sinergia sull’obiettivo in ogni fase della collaborazione/cooperazione.
Per un approfondimento sul gruppo classe, leggi l’articolo Il gruppo classe come ambiente di apprendimento. Quale dimensione sviluppare
– Nell’ambito dell’apprendimento cooperativo, cosa intende Allport con teoria del contatto?
L’ipotesi del contatto, elaborata da Allport verso la metà del ’900, sostiene che il contatto tra gruppi sociali differenti produce degli effetti positivi perché favorisce la conoscenza reciproca e la familiarità. Le differenze tra i gruppi sociali tra cui si crea e promuove il contatto possono essere di vario tipo: etniche, di nazionalità, di religione, di scelte sessuali, di condizione di salute fisica e mentale, ma perché il contatto produca realmente effetti positivi, come la riduzione delle tensioni e il calo del livello di pregiudizio, devono esserci alcune condizioni fondamentali:
1) le interazioni tra gruppi devono essere di tipo cooperativo e avere scopi comuni (lavorare insieme per un obiettivo condiviso);
2) lo status dei gruppi coinvolti deve essere simile;
3) il sostegno sociale e istituzionale deve essere chiaro.
– Quali sono gli assunti di base?
Quello di “assunti di base” è un concetto elaborato dallo psicanalista Wilfred Bion, che usa questa espressione per riferirsi all’insieme di meccanismi di difesa che emergono nel gruppo per fronteggiare le ansie derivanti dal lavoro che il gruppo stesso conduce. Secondo Bion, infatti, nelle dinamiche di gruppo interagiscono due componenti, una conscia e razionale, che definisce “gruppo di lavoro”, rappresentata dalla motivazione per cui i membri partecipano al gruppo stesso, l’altra inconscia, che chiama “assunti di base”, costituita proprio dai meccanismi di difesa che, come anticipato sopra, sono quelli messi in atto dal gruppo per fronteggiare le ansie scaturenti dal lavoro conscio prodotto dal gruppo stesso.
Bion identifica tre tipi di assunti di base:
1) assunto di dipendenza, che si attiva quando tutto il gruppo dipende passivamente dal leader;
2) assunto di attacco e fuga, che si attiva quando un membro del gruppo, una parte del gruppo o l’intero gruppo tendono ad attaccare o a fuggire da qualcosa percepito come una minaccia (quasi sempre esterna);
3) assunto di accoppiamento, che si attiva quando all’interno del gruppo si forma una coppia sulla quale tutti gli altri membri riversano le proprie aspettative e alla quale dunque si affidano passivamente, disimpegnandosi nella maniera più completa rispetto al lavoro di gruppo.
Queste due componenti, gruppo di lavoro e assunti di base, interagiscono sempre nelle dinamiche di gruppo e quella inconscia, che, se non superata ed elaborata, può rappresentare un ostacolo al lavoro conscio del gruppo e portare il gruppo stesso alla distruzione, può rivelarsi anche una risorsa in quanto sfrutta l’energia e la potenza che le derivano dalla dimensione emotiva ed affettiva da cui viene attivata per produrre un cambiamento utile al lavoro di gruppo, che, nell’esperienza di Bion, riesce a emergere sempre come vincitore.
– Nella teoria di Ausubel, l’insieme di conoscenze e competenze padroneggiate dall’alunno in un determinato momento rimanda al concetto di struttura cognitiva?
Sì, per Ausubel, l’insieme di conoscenze e competenze padroneggiate dall’alunno in un determinato momento rimanda al concetto di struttura cognitiva, ma per rispondere a questa domanda è utile ricordare che cosa questo autore intenda per apprendimento significativo (cioè il concetto principale attorno al quale ruota la sua teoria). Come spiega nel testo del 1978, Educazione e processi cognitivi: guida psicologica per gli insegnanti, l’apprendimento significativo è quello capace di inserirsi nella “struttura cognitiva esistente” e di mettere in relazione “i materiali logicamente significativi” “con il substrato di concetti, principi e informazioni precedentemente appresi, che rendono possibile l’emergere di nuovi significati e ne facilitano la ritenzione”. In questa prospettiva, le proprietà specifiche e organizzative proprie di tale struttura cognitiva esistente acquistano centralità, poiché in grado di influenzare “in modo determinante sia l’accuratezza e la chiarezza dei significati emergenti sia la loro recuperabilità immediata e a lungo termine”. Questa struttura cognitiva è costituita quindi proprio dalle conoscenze e dalle competenze che l’alunno padroneggia in un determinato momento e nelle quali possono andare a integrarsi i nuovi apprendimenti. Il processo di innesto del nuovo su quello che già c’è per far emergere nuovi significati può essere facilitato, secondo Ausubel, dall’uso, nella didattica, degli organizzatori anticipati, cioè dei materiali che vengono forniti prima della lezione per facilitare la comprensione delle relazioni tra concetti, per esempio i diagrammi causa-effetto, di confronto, di struttura o le mappe concettuali.
Per un quadro generale in merito alle principali teorie dell’apprendimento, leggi l’articolo Le teorie dell’apprendimento e scarica gratuitamente la mappa mentale. Se invece, stai cercando un approfondimento sull’apprendimento significativo, leggi l’articolo Il compito di realtà per un apprendimento significativo.
– Quali sono i diversi stili di attribuzione?
Alcuni psicologi sociali come Fritz Heider e Bernard Weiner, si sono occupati del concetto di attribuzione per studiare in che modo le persone analizzano le cause dei propri successi o insuccessi al fine di comprendere a chi o che cosa è dovuto l’esito positivo o negativo dei propri comportamenti. In altre parole, per individuare gli elementi a cui attribuire la riuscita o meno di un compito o di un progetto.
Le attribuzioni sono, quindi, quei processi che descrivono come le persone interpretano gli eventi rintracciandone le cause, avanzando delle ipotesi e prendendo delle decisioni in base a ciò che accade intorno a loro.
In particolare, nella ricerca delle cause, l’attribuzione può rivolgersi a elementi esterni – come il comportamento di altre persone coinvolte, la fortuna, le condizioni di contesto –, in tal caso si parla di “attribuzione esterna”, oppure a elementi interni – come le proprie capacità o incapacità, le proprie conoscenze e attitudini –, in tal caso si parla di “attribuzione interna”. A tal proposito, Heider ha mostrato che generalmente le attribuzioni a cause personali (interne) sono più frequenti di quelle a cause ambientali (esterne), ciò perché l’unità tra chi agisce (agente) e l’azione è percepita in maniera più immediata di quella tra azione e ambiente. Tuttavia, va detto che le persone attuano entrambi i tipi di attribuzioni e hanno delle tendenze abituali a propendere verso l’una o verso l’altra che possiamo definire “stili di attribuzione”.
Saper riconoscere lo stile attributivo dei propri studenti ritorna molto utile in classe per poter lavorare, in particolare, sulla loro motivazione. Come evidenzia Weiner, infatti, una componente importante degli stili attributivi è la stabilità, che si riferisce alla durata di una causa. Se, per esempio, uno studente attribuisce i propri insuccessi a dei fattori che ritiene stabili nel tempo, come la propria incapacità di memorizzare o la mancanza di attitudine verso una particolare attività, la sua motivazione diminuirà, perché ogni sforzo gli sembrerà vano. Per motivarlo, dunque, può tornare utile fargli acquisire consapevolezza dei suoi punti di forza e farlo riflettere sulle occasioni in cui è riuscito proprio in quei compiti nei quali si reputa non capace, mostrandogli, così, che quelle cause sono tutt’altro che stabili e immodificabili e non sono una “condanna” all’insuccesso.
Diversi stili di attribuzione sono stati individuati in particolare tra gli studenti:
1) depresso, che tende ad attribuire i propri insuccessi alla mancanza di abilità personali e alla propria incapacità e assume un atteggiamento rinunciatario;
2) pedina, che tende ad attribuire la causa dei suoi successi e dei suoi insuccessi sempre a cause esterne, ma può mettere in atto strategie per migliorare la situazione;
3) abile, che tende ad attribuire i propri successi e i propri insuccessi alle proprie capacità e al proprio impegno, cause sulla quali, dunque, può intervenire in caso di fallimento.
– Chi è Giovanni Maria Bertin?
Giovanni Maria Bertin è uno dei principali promotori del problematicismo pedagogico. Con il termine “problematicismo” si fa riferimento a un orientamento della filosofia contemporanea che si sofferma sulla problematicità di ogni concezione metafisica, che cerchi cioè di spiegare la realtà prescindendo dai dati provenienti dall’esperienza. Per il problematicismo, infatti, l’esperienza svolge un ruolo centrale nella conoscenza e ha in sé una sua problematicità, in quanto si pone come il risultato dell’integrazione di due elementi, l’io e il mondo, che, a prescindere dalle innumerevoli possibili identità che possono assumere, restano distanti e reciprocamente opachi (cioè non riescono a “vedersi” l’un l’altro con assoluta trasparenza e nella loro integrità) e sono quindi destinati a integrarsi in un modo che è sempre approssimativo e parziale. Proprio per questa ragione (la dipendenza della conoscenza dall’esperienza e le caratteristiche non assolute dell’esperienza stessa), il problematicismo nega la possibilità di un sapere certo e definitivo e ritiene che ogni determinazione del sapere stesso deve essere colta nel suo sviluppo libero e concreto, senza pretendere di catalogarla in categorie assolute che perdono il contatto con la realtà. Uno dei maggiori contributi al problematicismo in Italia è quello di Antonio Banfi che ha tra i suoi allievi più significativi Giovanna Maria Bertin, il quale porta l’idea centrale del problematicismo all’interno dell’esperienza pedagogica e lega così il suo nome a quel filone di studi che prende il nome di “problematicismo pedagogico” occupandosi dunque, in particolare, della problematicità dell’esperienza pedagogica.
Per ulteriori approfondimento su questo argomento, leggi l’articolo Il problematicismo pedagogico di Bertin e Fabbroni
– Il ruolo del Facilitatore
L’idea di insegnante come facilitatore dell’apprendimento pervade ormai la didattica e la pedagogia. In questi ambiti, infatti, è stata superata – almeno nella teoria – l’idea del docente inteso come colui che trasmette in maniera standardizzata la propria conoscenza a degli studenti che la ricevono passivamente, per lasciare spazio a un’idea di insegnante capace di accogliere e accompagnare l’individualità di uno studente attivamente partecipe del proprio percorso di apprendimento.
Negli anni ’40 e ’50 del ’900 Carl Rogers, nella definizione della sua Terapia centrata sul cliente, individua nel terapeuta il ruolo di facilitatore, cioè di colui che, con un atteggiamento non direttivo, caratterizzato da empatia e accettazione, facilita il percorso del proprio paziente verso il suo naturale bisogno di conoscere e di autorealizzarsi. Questo modello di relazione non direttivo è valido, secondo Rogers, anche nella relazione educativa, in cui il ruolo di facilitatore dell’apprendimento è svolto dall’insegnante, il quale deve essere in grado di accogliere con empatia e fiducia la capacità di autorealizzarsi propria dello studente.
L’idea di insegnante come facilitatore è centrale anche nel pensiero di Thomas Gordon, allievo di Rogers e ideatore dell’omonimo modello educativo (Modello Gordon) basato sulla comunicazione e sull’importanza delle relazioni tra individui, ovvero sulla fiducia nel potenziale dell’altro con il fine di facilitare lo sviluppo di relazioni durature e significative tra le persone, basate sulla reciproca soddisfazione e sulla risoluzione pacifica dei conflitti. Anche per Gordon lo studente può e deve gestire in autonomia il proprio percorso di apprendimento, all’interno del quale, l’insegnante svolge il ruolo di facilitatore, cioè di colui che con l’opportuna capacità comunicativa costruisce una relazione efficace e sostiene attraverso l’empatia e l’ascolto attivo il processo di sviluppo e di crescita della persona.
– Chi è Richard Stanley Peters?
Richard Stanley Peters è un filosofo molto attivo nella riflessione pedagogica, in particolare in merito agli aspetti legati alle finalità dell’educazione. Una delle sue opere più note è Il nuovo volto dell’autorità dopo Marx e Freud, risalente agli anni ’60, ma un’altra sua opera significativa in questo ambito, che risale al decennio successivo, è Analisi logica dell’educazione un volume collettaneo di cui è curatore, nell’ambito del quale ha scritto un contributo dal titolo Che cos’è un processo educativo.
– Nevrosi e psicosi: qual è più grave?
Una delle differenze più importanti tra psicosi e nevrosi sta nella “gravità” dei sintomi, dove con tale termine si fa riferimento all’impatto che questi hanno sul processo di adattamento alla realtà della persona che ne è afflitta. In generale, la psicosi è un disturbo più grave di quello nevrotico, perché presuppone che ci sia una dissociazione – anche se in alcuni casi non cronica – tra l’Io e la realtà e, quindi, lo scollamento da questa, una condizione che non si verifica per la nevrosi. Di fatto però, può accadere, che una persona nevrotica presenti un sintomo più “grave” – nel senso che impatta di più sul suo adattamento alla realtà ed è dunque di rilievo clinico maggiore – di altri sintomi presentati da persone psicotiche. Si pensi, per esempio, a un disturbo nevrotico ossessivo-compulsivo, che spinge la persona a compiere continuamente uno o più gesti (per esempio lavarsi le mani) per placare la propria ansia. Tale sintomo può diventare più “invalidante” nel raggiungimento dei suoi obiettivi, di quello presentato, per esempio, da una persona psicotica che, pur essendo scollata dalla realtà, può riuscire invece a raggiungerli: si pensi ai casi di Van Gogh o Gauguin, che, sebbene con grande sofferenza, sono riusciti a conseguire dei risultati importanti per se stessi e per l’arte. In sintesi, dunque, le psicosi sono generalmente più gravi delle nevrosi, ma non sempre, poiché può capitare che le nevrosi presentino sintomi di rilievo clinico maggiore rispetto ad alcune forme psicotiche.
– Cosa s’intende per rinforzo positivo nella terapia del comportamento nei casi di nevrosi?
Il concetto di rinforzo lo introduce Skinner nell’ambito della sua teoria sul condizionamento operante. Partendo dal presupposto che la risposta a un determinato stimolo non è unica, ma esiste un repertorio di risposte possibili tra cui il soggetto può scegliere, lo studioso dimostra che è possibile indurre alla scelta di una particolare risposta, cioè un particolare comportamento, utilizzando degli stimoli rinforzanti. Questi rinforzi possono essere: positivi, quando assumono la forma di un premio, per esempio una lode o un buon voto, una ricompensa materiale, cioè qualcosa che il soggetto desidera; o negativi, quando assumono invece la forma di “assenza di punizione”, cioè quando il soggetto sa che attuando il comportamento richiesto dall’educatore può evitare una situazione spiacevole. Ovviamente, il rinforzo negativo ha degli inconvenienti rispetto a quello positivo: innanzitutto comporta la necessità di mettere a disagio il soggetto informandolo di quello che lo attende se non attuerà il comportamento richiesto, cioè, in un certo senso, di minacciarlo; in secondo luogo, se il soggetto non attua il comportamento desiderato, richiede di mettere in atto la punizione minacciata, con le conseguenze poco piacevoli che questa comporta. Ora che abbiamo ricapitolato gli aspetti principali del rinforzo, possiamo andare a vedere in che modo questo viene utilizzato nella terapia del comportamento nei casi di nevrosi. La prima cosa da considerare è che questo tipo di terapia parte dal presupposto che un comportamento non funzionale, e quindi non desiderato, può essere modificato per farlo diventare più funzionale o del tutto sostituito con un altro che funzionale lo è già e che, quindi, è desiderabile. Nel primo caso, quando si opera nel senso della modifica del comportamento, vengono usati rinforzi positivi (sociali o materiali) per rinforzare solo quella parte della risposta che varia in direzione del comportamento che il terapista vuole incoraggiare perché funzionale. Nel secondo caso, quando si opera nel senso della sostituzione del comportamento non funzionale, vengono usati sempre dei rinforzi positivi, ma questa volta finalizzati a rinforzare un comportamento funzionale diverso da quello non funzionale messo in atto dal soggetto, in modo che questa nuova risposta si sostituisca alla prima. In entrambi i casi, dunque, il rinforzo positivo è usato per favorire il comportamento funzionale.
– Quali sono le differenze tra gli strutturalisti e i funzionalisti?
Per comprendere le principali differenze tra l’approccio funzionalista e quello strutturalista, gli elementi da tener presente sono i seguenti:
1) lo strutturalismo scompone l’esperienza della mente in una serie di elementi fondamentali, per esempio le sensazioni, le immagini mentali, gli stati affettivi, ne esamina dunque la “struttura” composta da più elementi in relazione tra loro;
2) il funzionalismo, invece, non si concentra sugli elementi fondamentali della mente umana, poiché ritiene che questa sia soggetta a continui cambiamenti dovuti alla sua interazione con l’ambiente e che pertanto non sia possibile darne una rappresentazione statica, ritiene dunque più interessante e utile capire quale sia la “funzione” della mente più che la sua “struttura”. Se quindi l’approccio dello strutturalismo è più analitico e focalizzato sui processi mentali, quello del funzionalismo è più globale e orientato a cogliere le attività della mente, cioè la sua funzione.
– Qual è la relazione tra apprendimento autodiretto e life long learning?
Quello dell’apprendimento autodiretto è un tema strettamente legato al life long learning e sul quale c’è un ampio dibattito cui Candy ha dato un importante contributo sottolineando la distinzione tra autoistruzione e autodidassi e mettendo in luce quanto, in questo secondo modo di intendere l’apprendimento autodiretto, influiscano aspetti come l’autonomia e la motivazione, elementi della sfera affettiva dunque, che cooperano con quelli cognitivi per condurre efficacemente l’intero processo di apprendimento anche in contesti informali.
– Tra gli stili di apprendimento teorizzati da David Kolbe, qual è quello che l’autore chiama “stile bilanciato”?
In uno studio del 2002 condotto con i colleghi Mainemelis e Boyatzis, dal titolo Learning styles and adaptive flexibility: Testing experiential learning theory. Management Learning, David Kolbe si occupa di verificare un’ipotesi centrale nella sua teoria dell’apprendimento esperienziale, ovvero che più le persone sono bilanciate nel loro stile di apprendimento e maggiore è la loro capacità di adattarsi con flessibilità ai cambiamenti del contesto di apprendimento, in pratica, di apprendere efficacemente in contesti anche molto diversi tra loro. In questo studio Kolb parla, oltre che dei quattro stili di apprendimento da lui già formulati in anni precedenti – divergente, assimilante, convergente, accomodante –, di un quinto stile di apprendimento che definisce “balancing”, traducibile quindi come “bilanciato”, in cui le quattro abilità che interagiscono nel ciclo dell’apprendimento – esperienza concreta, osservazione riflessiva, concettualizzazione astratta, sperimentazione attiva – sono presenti e in equilibrio.
– Perché il linguaggio operativo è uno dei tratti fondamentali delle procedure osservative?
L’osservazione non può prescindere dalla presenza dell’osservatore e dalla sua soggettività, fattori che possono influenzare il processo di osservazione stesso sia nella fase di rilevamento dei dati sia in quella che riguarda la loro interpretazione. Per questa ragione l’uso di un linguaggio operativo nel processo osservativo – cioè di un linguaggio che stabilisce in modo inequivocabile le operazioni da svolgere per identificare i dati – diventa fondamentale per ridurre il rischio di una loro interpretazione “falsata” dalla soggettività, in quanto consente di indentificarli in modo chiaro, cioè di stabilire quali sono quelli che possiamo osservare, quanto possiamo conoscerli e come possiamo misurarli.
– Quali sono i metodi della lezione frontale?
Fiorino Tessaro, docente di didattica e pedagogia speciale dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, nel suo testo dal titolo Metodologia e didattica dell’insegnamento secondario, descrive il metodo della lezione frontale che rappresenta “la tradizionale base metodologica dell’esposizione didattica”. Come spiega Tessaro, la “lezione” è una “modalità di presentazione, o di esposizione didattica” che si avvale, fondamentalmente della comunicazione orale e rientra tra i metodi espositivi, tra i quali sono distinguibili tre tipi differenti.
1) Il metodo espositivo puro: cioè quello in cui l’insegnante spiega e gli studenti ascoltano. Questo metodo comporta una trasmissione unidirezionale dell’informazione, che va cioè dall’insegnante allo studente, e si basa su una concezione sostanzialmente “ricettiva” dell’apprendimento, sebbene presupponga anche che l’allievo sia attivo nella ricezione e dunque nell’ascolto, poiché senza questa condizione l’efficacia della lezione sarebbe pressoché nulla.
2) Il metodo espositivo interrogativo: anche in questo caso, l’insegnante spiega e gli studenti ascoltano, tuttavia ci sono anche dei momenti – o durante la lezione o alla sua conclusione – in cui l’insegnante pone delle domande agli studenti, volte fondamentalmente ad avere un feedback sull’effettiva comprensione degli argomenti, per eventualmente riformularli se questi non sono stati compresi in maniera adeguata.
3) Il metodo espositivo partecipativo: anche in questo caso, l’insegnante spiega e gli studenti ascoltano, tuttavia gli studenti possono partecipare più attivamente alla lezione ponendo delle domande o delle riflessioni, sebbene ciò debba avvenire secondo delle modalità “negoziate” con l’insegnante. Quando nella lezione prevale questo metodo, dunque, si alternano delle fasi “passive” (cioè quelle in cui gli studenti ascoltano) a fasi “attive” (cioè quelle in cui gli studenti intervengono). In questo caso, inoltre, la lezione include, nella fase finale, anche degli esercizi applicativi e/o delle attività da svolgere in collaborazione.
Dunque, da quanto spiegato da Tessaro, possiamo dedurre che la lezione frontale si avvale di questi tre metodi e, a seconda, di quello che predilige acquisisce delle caratteristiche diverse in merito al grado di coinvolgimento e partecipazione degli alunni, pur richiedendo da parte di questi ultimi sempre un ruolo attivo, anche quando solo più limitato all’ascolto.
– Cosa intendono Simonton e Campbell per variazione cieca ed ecolocazione?
Donald Campbell e Dean Simonton, negli anni ’60 del ’900, hanno elaborato l’idea che lo sviluppo di nuove idee somiglia a quello di nuove specie. In tale prospettiva, hanno dunque fatto proprio un concetto centrale in ambito evolutivo e biologico, cioè quello di variazione cieca, grazie al quale il codice genetico viene modificato (cioè subisce una “variazione”) da eventi accidentali. L’aggettivo “cieca”, infatti, sta a indicare che, proprio perché “accidentale”, casuale, la variazione non ha un preciso progetto, procede al buio, senza sapere dove sta andando e a quale risultato perverrà. Gli esiti cui giunge, però, possono essere anche numerosi e non tutti validi, proprio per questo motivo, interviene un processo successivo, che è quello della conservazione selettiva, con il quale l’evoluzione stessa seleziona i risultati che vale la pena conservare per le loro potenzialità di successo, mentre tutti gli altri progressivamente svaniscono. Applicando questi concetti a un livello simbolico all’ambito della creatività, Campbell e Simonton vedono nell’idea originale e creativa il risultato di un processo di variazione cieca, durante il quale le diverse opportunità vengono esplorate senza sapere anticipatamente quale delle alternative e delle possibili combinazioni porterà al risultato desiderato. Ma, allora, se procede alla cieca, come fa la persona che vuole produrre delle nuove idee ad arrivare al risultato che poi deciderà di selezionare e conservare? Come fa a riconoscerlo anche senza sperimentare tutte le combinazioni possibili? Qui, dunque, entra in gioco un altro concetto che i due studiosi prendono in prestito dalla biologia, ovvero quello di ecolocazione, la capacità propria di alcuni animali – come i cetacei o i pipistrelli – di “vedere”, grazie agli ultrasuoni, anche in assenza di luce. Infatti, proprio come questi animali riescono a sapere cosa accade intorno a loro al buio e anche senza muoversi, solo sfruttando il rimbalzo delle onde sonore sugli oggetti presenti nell’ambiente, per poter poi scegliere come agire evitando pericoli e individuando fonti di cibo, la persona intenta nella formulazione di un’idea creativa riesce a “vedere” i diversi esiti di un’azione, cioè a immaginarli, anche senza doverli sperimentare praticamente (senza muoversi dunque) e, allo stesso modo, riesce a individuare i criteri di selezione che le consentiranno di decidere quale sia la soluzione appropriata.
Ecco perché, quindi, per Simonton il processo creativo può sintetizzarsi in tre fasi:
1) la prima è quella in cui avviene una variazione cieca nelle strutture cognitive durante la quale, grazie all’ecolocazione, la persona immagina i possibili esiti delle combinazioni di elementi di cui dispone e individua i criteri per effettuare la successiva selezione;
2) la seconda è quella in cui le soluzioni vengono selezionate sulla base dei criteri individuati;
3) la terza è quella in cui, una volta individuate le soluzioni che soddisfano i criteri, queste vengono conservate.
– Qual è la differenza tra metodologia e metodo didattico?
Il metodo didattico è il percorso pratico e concreto attraverso il quale l’insegnante sceglie di implementare l’apprendimento e, quindi, di raggiungere l’obiettivo che ha individuato. Diversamente, la metodologia didattica è qualcosa che va oltre il concetto di operatività insito nel metodo ed è piuttosto una riflessione critica sui metodi, cioè sugli obiettivi che si pongono e su come li perseguono, finalizzata a definire una sorta di “teoria sui metodi”.
Sulla base di questa distinzione, potremmo vedere, per esempio, nella metodologia laboratoriale una sorta di contenitore teorico all’interno del quale rientrano quei percorsi concreti di metodo che nella loro operatività privilegiano tutte quelle attività e/o quelle tecniche didattiche che favoriscono la sperimentazione e la costruzione attiva da parte dello studente nella risoluzione di compiti reali e in collaborazione con altri, come per esempio le attività di laboratorio in senso stretto (per esempio: progettare e costruire il modellino di una casa o realizzare un libro illustrato o realizzare un giornale della classe) o una tecnica specifica come quella del tinkering per esempio.
In quest’ottica, volendo fare un altro esempio, nell’ambito delle metodologie attive, un “metodo” è quello montessoriano che si pone come obiettivo lo sviluppo naturale del bambino e lo persegue attraverso attività e tecniche che prediligono l’esperienza, la costruzione, la riflessione individuale, l’autonomia, la collaborazione tra pari.
Capita, tuttavia, che nei testi dei quiz proposti alla preselettiva del TFA, ci sia una grande alternanza tra l’uso di metodo e metodologia e tecnica didattica, in cui questi tre termini, talvolta, sembrano usati più come dei sinonimi.
– Cosa intende Edward De Bono per “efficacia” della mente?
Nel testo Creatività e pensiero laterale del 2015, nel capitolo dal titolo La mente quale sistema modellizzante, Edward De Bono spiega che uno degli aspetti di maggiore efficacia della nostra mente sta nella sua “capacità di creare modelli, immagazzinarli e riconoscerli”. L’efficacia sta nel fatto che tale capacità di creare dei nostri modelli e di riconoscerli è proprio quella che ci permette di comunicare al meglio con l’ambiente in cui viviamo.
– Quali sono le classi o aree di interesse per Herbart?
Nei due testi Pedagogia Generale dedotta dal fine dell’educazione (1806) e Disegno di Lezioni di Pedagogia (1835), Herbart, insegnante appassionato ed estimatore di Pestalozzi, si occupa di dare un assetto autonomo alla scienza pedagogica. La sua riflessione sull’istruzione, nella quale individua quattro gradi – I chiarificare o isolare, II associare o confrontare, III sistemare o inquadrare, IV applicare – si sofferma sui concetti di “interesse”, “attenzione”, “appercezione” e “memoria”. In particolare, in merito all’interesse, Herbart ritiene che questo sia di due tipi: 1) conoscitivo; 2) partecipante. L’interesse conoscitivo può essere empirico, speculativo, estetico ed è alla base dell’istruzione di tipo scientifico; l’interesse partecipativo può essere simpatetico, sociale, religioso ed è alla base dell’istruzione di tipo storico-umanistico. Compito dell’insegnante, secondo Herbart, è quello di coltivare, simultaneamente, nell’alunno tutte e sei queste “aree” o “classi” di interesse, cercando di contrastare ogni tendenza a concentrarsi solo su una o su alcune di queste.
– Quali sono gli elementi di connessione tra attività valutativa e organizzazione dei processi di insegnamento e di apprendimento?
Quali sono gli elementi di connessione tra attività valutativa e organizzazione dei processi di insegnamento e di apprendimento?
La connessione tra attività valutativa e organizzazione dei processi di insegnamento e di apprendimento è strettissima e di primaria importanza nella scuola dell’autonomia disciplinata dalla L. 59/1997 e dal D.P.R 275/1999. Nella definizione del curricolo, infatti, il compito della scuola e, in particolare degli insegnanti, non è solo quello di stabilire contenuti e attività per il raggiungimento degli obiettivi, ma anche quello di modularli sulla base delle effettive esigenze degli studenti e del loro apprendimento.
La valutazione è uno strumento essenziale di cui dispongono, poiché, accompagnando l’attività didattica in tutti i suoi momenti, consente ai docenti di monitorare l’intero processo di insegnamento-apprendimento e di modificarlo, se e quando necessario, per favorire l’apprendimento e, con esso, l’acquisizione delle competenze negli studenti. Valutazione diagnostica, valutazione formativa e valutazione sommativa sono, dunque, tutti momenti essenziali del processo di insegnamento-apprendimento, proprio perché consentono, rispettivamente, di: raccogliere informazioni sul grado di conoscenze e competenze che gli studenti hanno acquisito sulle quali fondare le scelte della progettazione didattica; acquisire informazioni sull’apprendimento dello studente contestualmente allo svolgimento dell’attività didattica modulandola al fine di adattarla meglio alle particolari esigenze individuali; tirare un bilancio conclusivo sia sui risultati di apprendimento conseguiti dallo studente sia sull’efficacia dell’azione didattica stessa. In generale, quindi, la valutazione è una parte integrante del processo di insegnamento-apprendimento, poiché rende possibile una progettazione didattica che sia in sintonia con il contesto in cui viene proposta in quanto capace di ascoltarlo e di agirvi concretamente.
Questa dinamica di stretta connessione tra valutazione e progettazione didattica si cala perfettamente anche nello più specifico ambito dell’autovalutazione che ciascuna istituzione scolastica è chiamata a svolgere ogni tre anni per poter individuare i propri punti di forza e di debolezza al fine di definire il proprio Piano di miglioramento, cioè quel piano descrittivo delle attività che vuole intraprendere per migliorare la propria proposta formativa espressa nel PTOF e i traguardi che intende perseguire. Il Rapporto di Auto-Valutazione, infatti, è uno strumento che l’INVALSI predispone e offre alle istituzioni scolastiche proprio per riflettere su se stesse e così proporre obiettivi di miglioramento, in particolare soffermandosi sul contesto in cui la scuola opera e sulle risorse di cui dispone, sugli esiti raggiunti dagli studenti, sui processi che la scuola stessa ha messo in atto nel triennio, sulla definizione delle priorità che intende perseguire per migliorare gli esiti in futuro. In tal senso il RAV è uno strumento di raccordo tra gli obiettivi nazionali e quella flessibilità e autonomia di cui le scuole godono espressa nel PTOF.
Faq sul programma d’esame del TFA: area dell’empatia e dell’intelligenza emotiva
Di seguito le domande più frequenti sull’area dell’empatia e dell’intelligenza emotiva.
– Cos’è la competenza emotiva per Carolyn Saarni?
Carolyn Saarni dedica ampio spazio alla competenza emotiva nel suo lavoro del 1999 The development of emotional competence, definendola come “l’insieme di abilità necessarie per essere efficaci, in modo particolare, nelle transazioni sociali che producono emozioni”.
Per un approfondimento sulle emozioni, leggi l’articolo Emozioni primarie o emozioni fondamentali? La risposta di Siegel.
– Cosa s’intende per hot cognition e cold cognition?
I concetti di cold e hot cognition, i quali si basano su un modo nuovo di intendere la cognizione come un processo che non coinvolge solo funzioni “fredde” (cold), come per esempio la percezione, la memoria, l’attenzione, il linguaggio, ma anche altre che sono definite “calde” (hot), perché coinvolgono la dimensione emotiva, relazionale e della motivazione. Dunque una cold cognition è quella in cui prevalgono le funzioni fredde, mente la hot cognition è quella in cui prevalgono le funzioni calde, come le emozioni e i ricordi delle esperienze passate che sono nella nostra memoria a lungo termine e sono quindi intrecciati nel nostro Ippocampo. Ecco perché è così importante associare l’apprendimento a delle emozioni positive, perché emozioni ed esperienze (anche quelle specifiche di apprendimento) sono strettamente connesse e, se qualcosa che abbiamo imparato è associata nella nostra memoria a un’emozione piacevole, tendiamo a ricordarla volentieri e quindi più facilmente.
Per approfondimento su questo argomento, leggi l’articolo Cosa è la hot cognition?
– Quali sono i due approcci principali nell’apprendimento secondo Gardner?
Nel volume Formae Mentis del 1983, Howard Gardner spiega la sua teoria delle intelligenze multiple, la quale si basa sull’assunto fondamentale che esistono “almeno alcune intelligenze, che queste siano relativamente indipendenti l’una dall’altra e che possano essere plasmate e combinate da individui e culture in una varietà di modi adattivi”. Nelle circa 600 pagine di questo volume, l’autore dichiara più volte che il suo obiettivo non è fare una “dicotomizzazione del cervello”. Come spiega, nelle Conclusioni del Capitolo 4, dal titolo Che cos’è l’intelligenza, ricorrere a etichette linguistiche come “intelligenza linguistica”, “intelligenza interpersonale”, “intelligenza spaziale” è solo un modo utile “per parlare di processi e abilità che (come il resto della vita) formano un continuo”, “la natura”, infatti, “non manifesta discontinuità brusche del tipo presentato” nel volume che lui stesso ha scritto.
Con questo, Gardner vuole dire che, per approcciare in maniera utile la riflessione e lo studio sulle intelligenze multiple dobbiamo sempre tenere presente che le intelligenze specifiche da lui individuate secondo i criteri che spiega nel suo testo, vanno sempre intese non come “entità verificabili fisicamente, ma solo come costrutti scientifici potenzialmente utili”. Chi legge questo volume, quindi, ha chiaro un fatto e cioè che per Gardner queste abilità specifiche che chiama “intelligenze” si combinano tra loro, nonché che la prevalenza di una o più di una dipende non solo dalla persona, ma anche dal contesto culturale in cui questa vive con il relativo sistema di istruzione e di trasmissione del sapere.
Sulla base di questa impostazione che tiene fortemente in considerazione sia la continuità tra intelligenze specifiche diverse e il legame con il contesto di riferimento e con il compito, nel capitolo 8, dedicato alla discussione sull’intelligenza spaziale, Gardner dichiara che “agli occhi di molti, l’intelligenza spaziale è ‘l’altra intelligenza’: quella che dovrebbe essere contrapposta all’intelligenza linguistica e considerata di pari importanza. I dualisti parlano di due sistemi di rappresentazione: un codice verbale e un codice di immagini; i localizzatori localizzano il codice linguistico nell’emisfero sinistro e il codice spaziale nell’emisfero destro”. In questo passaggio del volume, l’autore chiarisce anche che lui non “accetta una tale dicotomizzazione del cervello”, tuttavia è disposto ad ammettere che “per la maggior parte dei compiti usati dagli psicologi sperimentali, le intelligenze linguistica e spaziale forniscono le fonti principali di memorizzazione e di soluzione”, generando dunque apprendimento.
Faq sul programma d’esame del TFA: area di normativa e governance
Area di normativa e governance. Le vostre domande frequenti.
– Con la legge 104/92 è la prima volta che si introduce il Piano educativo individualizzato e il Profilo di funzionamento? Gli stessi vengono tenuti ma stilati diversamente in relazione all’ICF con il D.Lgs. n. 66/2017?
A seguito della L. n. 517/1977 comincia in Italia un periodo di sperimentazione didattica in chiave di integrazione e si cominciano a testare nuovi strumenti programmatici e attuativi di quelle politiche che rientrano in quella dimensione che oggi chiamiamo “inclusione”. Ne è traccia la Circolare Ministeriale n. 258 del 22 settembre 1983, che invita gli operatori scolastici e gli operatori dei servizi territoriali, interessando i genitori di ciascun bambino, a definire “insieme un programma da attuare in un tempo determinato (mese, trimestre, anno scolastico)” e a collegare e integrare nel “Piano educativo individualizzato” gli interventi: didattici, educativi, terapeutici, riabilitativi (scolastici ed extrascolastici). Il riferimento normativo (cioè che fa riferimento proprio a una legge) è comunque indubbiamente la L. 104/1992 (art. 12) e il conseguente D.P.R. del 24 febbraio 1994 (art. 5), dove si prevedono, in sintesi, i seguenti passaggi:
1) individuazione dell’alunno come persona handicappata e acquisizione della documentazione risultante dalla diagnosi funzionale;
2) stesura di un profilo dinamico-funzionale;
3) formulazione di un piano educativo individualizzato.
Sull’art. 12 della L. 104/1992 interviene il D.Lgs. n. 66 del 13 aprile 2017 (come modificato dal D.Lgs. n. 96 del 7 agosto 2019, a decorrere dal 1° settembre 2019) che abroga il D.P.R. del 24 febbraio 1994 e prevede che:
1) l’accertamento della condizione di disabilità in età evolutiva ai fini dell’inclusione scolastica è propedeutico alla redazione del profilo di funzionamento (che ingloba la Diagnosi funzionale e il Profilo dinamico funzionale previsti dal DPR del 1994);
2) il profilo di funzionamento è redatto secondo le Linee guida emanate dal Ministero della Salute nel novembre 2022 e predisposto secondo i criteri del modello bio-psico-sociale della Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute (ICF) dell’OMS;
3) il profilo di funzionamento è il documento propedeutico e necessario alla predisposizione del Piano educativo individualizzato (PEI) e del Progetto individuale (art. 5, comma 4 D.Lgs. n. 66/2017). Il PEI è redatto sulla base dei modelli unificati di cui al Decreto 182 del 2020.
Per una sintesi sulla normativa di riferimento del Piano educativo individualizzato, leggi l’articolo La normativa per il Pei e per il Profilo di funzionamento
– L’insegnante di sostegno può essere utilizzato dalla scuola per sostituire insegnanti curricolari assenti quando l’alunno o l’alunna con disabilità è presente?
Nella Nota del Miur n. 9839/2010, viene specificato chiaramente “di non ricorrere alla sostituzione dei docenti assenti con personale in servizio su posti di sostegno, salvo casi eccezionali non altrimenti risolvibili”. Ancor prima, nella Circolare del Miur n. 4274 del 4 agosto 2009, Linee guida sull’integrazione scolastica degli alunni con disabilità, è specificato che l’insegnante di sostegno “non può essere utilizzato per svolgere altro tipo di funzioni se non quelle strettamente connesse al progetto d’integrazione, qualora tale diverso utilizzo riduca anche in minima parte l’efficacia di detto progetto”. Questi due documenti, insieme, ci dicono, dunque, che in casi di estrema emergenza, nei quali non ci sono altre soluzioni possibili, l’insegnante di sostegno presente nella scuola può essere una risorsa da impiegare per sostituire un docente curricolare, ma solo a condizione che ciò non comporti un danno anche minimo al progetto di integrazione. Quando l’alunno o l’alunna con disabilità è presente, dunque, poiché lo spostamento dell’insegnante di sostegno su un’altra funzione (quella di docente curricolare) comporterebbe senz’altro una riduzione dell’efficacia del progetto di integrazione, la scuola non può ricorrere all’insegnante di sostegno per sostituirne uno curricolare, anche se la sostituzione riguarda la stessa classe in cui è presente l’alunno o l’alunna con disabilità.
– Entro quale età, secondo il DSM-5 devono insorgere i sintomi inquadrabili in una diagnosi di ADHD?
Una delle novità apportate nel DSM-5 rispetto al DSM-4 rispetto alla diagnosi di ADHD riguarda proprio il criterio dell’età: secondo il 5, i sintomi devono essere presenti entro i 12 anni, secondo il 4 invece entro i 7. La diagnosi in sé, dunque, può essere fatta anche prima o dopo questa età, come infatti avviene, poiché in genere si definisce tra gli 8 e i 10 anni, o anche precedentemente o, addirittura, in età adulta. Quello che il DSM-5 specifica non è che ci sia un limite di età, ma che i sintomi devono essersi presentati prima dei 12 anni, ecco perché, anche quando si fa una diagnosi in età adulta, è fondamentale parlare con la famiglia proprio per capire se i sintomi indicati dal DSM-5 per l’ADHD si siano presentati prima di quella età.
– Le prove INVALSI si svolgono anche per la scuola secondaria di primo grado in prima e in terza classe?
classe?
L’art. 1, comma 5 del D.L. n. 147/2007, che prevedeva le prove Invalsi anche in prima media, non è mai stata abrogata o modificata. Tuttavia tale decreto risulta superato dal D.Lgs. n. 62/2017 che regola ora la materia, quindi, al momento, è quest’ultimo il riferimento normativo valido, il quale prevede la prova Invalsi solo per la terza media. Anche per il D.P.R. n. 80/2013 vale quanto detto a proposito del D.L. n. 147/2007 (richiamato, tra l’altro, nel preambolo del DPR), cioè che è stato superato dal D.Lgs. 62/2017. In linea di massima, le norme sulla valutazione sono contenute nel D.P.R. n. 122/2009 e nel D.Lgs. 62/2017. Quest’ultimo, oltre agli aspetti generali – che sono riferiti sia al primo che al secondo ciclo di istruzione – regola solamente l’esame di Stato lasciando per il resto immodificate le norme stabilite con il D.P.R. 122/2009.
– Esiste ancora l’alternanza scuola lavoro?
I percorsi di alternanza scuola-lavoro, “obbligatori per tutte le studentesse e gli studenti degli ultimi tre anni delle scuole superiori, licei compresi” sono stati istituiti con il D.Lgs. n. 77/2005 e accolti e sviluppati con la L. 107/2015 (La Buona Scuola), per essere infine ridefiniti con la L. 145/2018, come “percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento” (PCTO). Esistono dunque ancora, ma con una nuova denominazione.
– Quando avviene, nella normativa, il passaggio dal concetto di integrazione a quello di inclusione?
Quando in Italia si arriva alla formulazione della L. n. 517/1977, si viene da un periodo in cui la disabilità è vista come qualcosa da tenere in una dimensione che potremmo definire “separata” dal resto della società: molto più medicalizzata e affrontata, appunto, in separata sede, per esempio nelle scuole speciali per minorati o nelle classi differenziali all’interno delle scuole comuni. Con questa legge, che nasce dagli esiti della commissione Falcucci, per la prima volta si passa dalla separazione all’integrazione, poiché è questo il documento che abolisce le classi differenziali e introduce la figura del docente di sostegno, con l’intento di portare le persone con disabilità all’interno delle classi comuni, per integrarle, cioè per dar loro l’occasione di entrare in contatto più diretto con il resto della società, alla ricerca dell’adattamento possibile. Si tratta già di un grosso passo in avanti, in effetti, ma la strada da percorrere è ancora lunga e costellata di non pochi ostacoli. Nei successivi 15 anni, si lavora sul piano normativo principalmente in direzione della formazione degli insegnanti specializzati in sostegno, mentre tanto lavoro viene compiuto nella pratica scolastica quotidiana per trovare i modi migliori di rendere l’integrazione non solo una parola ma una realtà. Si arriva così, alla L. n. 104/1992, il primo documento legislativo di carattere organico in materia di quello che all’epoca era chiamato “handicap”, in cui il riferimento è ancora al concetto di integrazione. È una legge comunque importantissima, poiché finalizzata a dare strumenti legalmente riconosciuti “per l’assistenza, l’integrazione e i diritti” delle persone con disabilità. Anche dopo questo importante momento, il cammino verso l’inclusione, forte anche del sostegno offerto dalla 104, continua, e si concretizza sul piano normativo nella Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012, Strumenti di intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica. Eccola qui la parola inclusione, che compare nel titolo di una Direttiva ministeriale e nei suoi contenuti e apre all’idea che tutte le persone sono a loro modo diverse e che devono poter trovare all’interno della scuola (come primo ambiente in cui si sperimenta la socialità) un contesto aperto ai bisogni di tutti, capace di cogliere l’originalità di ciascuno e di “contenerlo in sé” in un modo che non preveda tanto l’adattamento della persona al gruppo, ma piuttosto la trasformazione del gruppo stesso in un’entità nuova e più ricca fatta dal contributo e dall’unicità di tutti i suoi membri. La strada da fare è ancora lunga in tal senso, ma gli strumenti a disposizione diventano sempre di più, sempre più sperimentati nella pratica quotidiana e alla costante ricerca di ulteriori e possibili miglioramenti.
Per un approfondimento sul tema dell’integrazione e dell’inclusione, leggi l’articolo Essere insegnante per una didattica inclusiva.
– Anche per gli alunni che hanno una certificazione di disabilità si possono definire misure compensative e dispensative?
All’interno dei documenti ufficiali, di misure dispensative e strumenti compensativi si parla in maniera approfondita nelle Linee Guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con Disturbi Specifici di Apprendimento, allegate al D.M. n. 5669/2011 (12 luglio), in cui se ne offre una chiara e precisa definizione, accompagnata da indicazioni sulle modalità con cui vanno stabiliti e usati. In questo documento, se ne parla dunque, in riferimento ai DSA.
Tuttavia, quando nel 2012, con la Direttiva ministeriale BES e CTS del 27 dicembre 2012, viene introdotto il concetto di Bisogni educativi speciali (che si dividono nelle tre grandi sotto-categorie della disabilità, dei disturbi evolutivi specifici e dello svantaggio socioeconomico, linguistico, culturale), è specificato che sussiste la “necessità di elaborare un percorso individualizzato e personalizzato per alunni e studenti con bisogni educativi speciali, anche attraverso la redazione di un Piano Didattico Personalizzato, individuale o anche riferito a tutti i bambini della classe con BES, ma articolato, che serva come strumento di lavoro in itinere per gli insegnanti ed abbia la funzione di documentare alle famiglie le strategie di intervento programmate. Le scuole – con determinazioni assunte dai Consigli di classe, risultanti dall’esame della documentazione clinica presentata dalle famiglie e sulla base di considerazioni di carattere psicopedagogico e didattico – possono avvalersi per tutti gli alunni con bisogni educativi speciali degli strumenti compensativi e delle misure dispensative previste dalle disposizioni attuative della Legge n. 170/2010 (D.M. 5669/2011), meglio descritte nelle allegate Linee guida”.
Con questa direttiva infatti, si porta avanti, anche a livello normativo, un aspetto che emerge prepotentemente dalla prassi, cioè che gli alunni con bisogni educativi speciali possono essere molto diversi tra loro, ma che hanno tutti, appunto, “un bisogno speciale” il quale merita di essere ascoltato e di avere una risposta efficace, tra cui anche eventualmente, e a seconda delle caratteristiche del singolo caso, poter usufruire di misure dispensative e strumenti compensativi.
Anche con la successiva Circolare ministeriale n. 8 del 6 marzo 2013, questo concetto di ascoltare il bisogno speciale e di prendere in carico tutti gli alunni in maniera globale e inclusiva viene ribadito fin dalle prime battute, quando si dichiara che “fermo restando l’obbligo di presentazione delle certificazioni per l’esercizio dei diritti conseguenti alle situazioni di disabilità e di DSA, è compito doveroso dei Consigli di classe o dei teams dei docenti nelle scuole primarie indicare in quali altri casi sia opportuna e necessaria l’adozione di una personalizzazione della didattica ed eventualmente di misure compensative o dispensative, nella prospettiva di una presa in carico globale ed inclusiva di tutti gli alunni”.
– La partecipazione del discente con disabilità al GLO (Gruppo di lavoro operativo) è prevista per tutti gli ordini e gradi di scuola inclusa l’infanzia?
All’art. 9 del D.Lgs. n. 66/2017, come modificato dall’art. 8 del D.Lgs. n. 96/2019, è specificato che “all’interno del Gruppo di lavoro operativo, di cui al comma 10, è assicurata la partecipazione attiva degli studenti con accertata condizione di disabilità in età evolutiva ai fini dell’inclusione scolastica nel rispetto del principio di autodeterminazione”. Tale indicazione è confermata anche dall’art. 3 del Decreto interministeriale (Istruzione ed Economia e finanze) n. 182/2020, in cui, al comma 4, è specificato che “è assicurata la partecipazione attiva degli studenti e delle studentesse con accertata condizione di disabilità in età evolutiva ai fini dell’inclusione scolastica nel rispetto del principio di autodeterminazione”.
In entrambi i decreti, va posta attenzione alla terminologia usata, che si riferisce al discente con i termini “studente o studentessa”. Nella normativa scolastica, infatti, si usano:
– bambino e bambina in riferimento alla scuola dell’infanzia;
– alunno e alunna in riferimento alla scuola del primo ciclo (primaria e secondaria di primo grado);
– studente e studentessa in riferimento alla scuola secondaria di secondo grado.
Quando dunque si parla di partecipazione dello “studente o della studentessa” al GLO, si fa riferimento specifico al discente della secondaria di secondo grado. Tale informazione è del resto confermata nelle Linee guida allegate al D.Lgs. n. 66/2017, dove è specificato chiaramente che tale partecipazione è prevista per lo studente o la studentessa della Secondaria di secondo grado.
– Cosa sono le schede di debito di funzionamento?
All’articolo 18 del Decreto interministeriale n. 182/2020, che definisce le “modalità per l’assegnazione delle misure di sostegno”, è specificato che il Gruppo di lavoro operativo (GLO), “sulla base del Profilo di Funzionamento, individua le principali dimensioni interessate dal bisogno di supporto per l’alunno e le condizioni di contesto facilitanti, con la segnalazione del relativo debito di funzionamento. Le schede del debito di funzionamento, nella pratica, sono questo documento, che viene compilato appunto dal GLO per definire, come specificato al comma 2 dell’articolo 18 del Decreto, “il fabbisogno di risorse professionali per il sostegno didattico, l’assistenza all’autonomia e alla comunicazione”.
– Traguardi per lo sviluppo delle competenze e normativa sulla certificazione delle competenze
I traguardi per lo sviluppo delle competenze relativi ai campi di esperienza e alle discipline sono definiti, per la scuola dell’infanzia, la scuola primaria e la secondaria di primo grado, dalle Indicazioni Nazionali del 2012 e dai Nuovi Scenari del 2018. In merito alle certificazione delle competenze, invece, la questione è diversa: il D.M. 742/2017, con i suoi due Allegati relativi uno alla primaria e l’altro alla secondaria di primo grado, stabilisce che la certificazione delle competenze avviene una prima volta al temine della primaria e una seconda al termine della secondaria di primo grado. Il D.M. n. 9 del 27 gennaio 2010, Adozione del modello di certificazione dei saperi e delle competenze acquisiti dagli studenti al termine dell’assolvimento dell’obbligo di istruzione, disciplina invece una terza certificazione delle competenze, che viene rilasciata al termine dell’obbligo di istruzione, cioè al termine del secondo anno della secondaria di secondo grado, su richiesta dello studente. Per quanto riguarda la certificazione delle competenze al termine del secondo ciclo, non sono ancora state emanate disposizioni attuative (sebbene le scuole, nella loro autonomia, possano sperimentare procedure e modelli sulla base delle Linee guida, per gli istituti tecnici, e delle Indicazioni nazionali, per i licei). Inoltre, con il D.M. 88/2020, è stato attivato un equivalente della certificazione delle competenze con l’introduzione del curriculum dello studente. Per gli istituti professionali, infine, con il Decreto 24 agosto 2021 è stata approvata la Certificazione delle competenze per tali istituti.
– Quali sono le fasi per la predisposizione del PTOF?
Quando si parla delle fasi del PTOF, si fa riferimento a quanto espresso all’articolo 1, comma 14 della L. 107/2015, che modifica l’articolo 3 del DPR 275/1999, il quale, al comma 4, stabilisce che: “Il piano è elaborato dal collegio dei docenti sulla base degli indirizzi per le attività della scuola e delle scelte di gestione e di amministrazione definiti dal dirigente scolastico. Il piano è approvato dal consiglio d’istituto.” Ciò significa che, affinché il Piano Triennale dell’Offerta Formativa sia predisposto, devono essere messe in atto 3 fasi.
La prima è quella in cui il Dirigente scolastico definisce gli indirizzi per le attività della scuola (per esempio, promuovere metodologie didattiche innovative, consolidare i percorsi di didattica inclusiva, promuovere una progettualità didattica curricolare ed extracurricolare a sostegno della costruzione di abilità e competenze in ambito logico-matematico e linguistico) e compie le scelte di gestione e amministrazione (per esempio individuare il fabbisogno di posti comuni e di sostegno, del personale ATA, di attrezzature e infrastrutture).
La seconda è invece la fase in cui il Collegio dei docenti elabora materialmente il PTOF tenendo conto delle Linee di indirizzo.
La terza è quella in cui il consiglio di istituto approva il PTOF.
– Come studiare la normativa? Partiamo dalla gerarchia delle fonti!
Studiare la normativa scolastica non è affatto semplice, ma ci sono alcuni passi iniziali che possono aiutare e molto!
Uno di questi è comprendere la gerarchia delle fonti. La prima cosa che va chiarita, dunque, è che cosa s’intende per “fonte”. A tal fine, dobbiamo quindi ricordare che, con questo termine, si fa riferimento a ogni atto che ha la funzione di innovare o modificare l’ordinamento giuridico.
Altrettanto importante è comprendere che le fonti non sono tutte uguali, ma se ne distinguono tre tipologie principali: 1) fonti di produzione; 2) fonti sulla produzione; 3) fonti di cognizione.
Le fonti di produzione sono tutti quegli atti che producono diritto, cioè le disposizioni normative. Di conseguenza, le fonti sulla produzione sono tutte quelle che regolano la produzione: l’esempio più importante è la Costituzione. Le fonti di cognizione sono, infine, tutte quelle che ci consentono di conoscere le norme, per esempio la Gazzetta Ufficiale della Repubblica, ma anche Normattiva, dove si ha il vantaggio di poter consultare il testo delle normative anche con le modifiche intervenute negli anni.
Poi c’è la distinzione tra fonti atto e fonti fatto, che pure è importantissima, perché permette di comprendere la differenza esistente tra:
– gli atti, ovvero le Leggi e gli atti che hanno la forza di legge come i Decreti Legislativi e i Decreti Legge; Leggi delle Regioni o delle Province che godono di autonomia) con cui lo Stato o le Regioni esplicano il potere di cui sono conferiti al fine di esprimere una loro precisa volontà in accordo con quanto previsto dalle fonti sulla produzione;
– i fatti cioè tutte quelle norme non scritte che si basano sulla consuetudine, la quale tuttavia deve essere, innanzitutto, coerente con quanto normato dalle fonti di produzione e sulla produzione, costante nel tempo e ritenuta moralmente obbligatoria dalla società.
Le leggi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano comprendono dunque le fonti atto, che sono sia fonti di produzione sia sulla produzione e sono organizzate gerarchicamente.
Al livello più alto ci sono la Costituzione, le Consuetudini costituzionali e le Sentenze della Corte Costituzionale, ma anche, quasi parallelamente, sebbene leggermente più sotto, il Trattato UE e la Carta Onu.
Al livello sottostante ci sono le Leggi, i Decreti Legge e i Decreti Legislativi, ma anche le Direttive dell’Unione Europea, che sono tutti fonti primarie.
A un livello immediatamente successivo ci sono i Regolamenti ministeriali e i regolamenti adottati con Decreto del Presidente della Repubblica, che sono fonti secondarie perché subordinate a quelle primarie, le quali hanno appunto la funzione di regolamentare quanto definito nelle fonti primarie.
A un livello immediatamente inferiore, l’ultimo, ci sono i Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, le Ordinanze Ministeriali, i Decreti Ministeriali e i Decreti Interministeriali, che hanno la funzione di disciplinare su un piano tecnico e più dettagliato quanto stabilito dalle fonti primarie e secondarie che abbiamo visto sopra.
Negli spazi tra tutte queste fonti si inseriscono le fonti fatto di cui abbiamo detto sopra, cioè un insieme di fonti non scritte che si fondano sulla consuetudine, ovvero tutte quelle regole che la società si dà spontaneamente, in accordo con le fonti atto, e che consacra con la tradizione.
Conoscere questa gerarchia è fondamentale non solo per orientarsi nello studio, ma anche per comprendere come possono risolversi eventuali conflitti che si creano tra le fonti.
Kit completi per tutte le prove d’esame del TFA sostegno didattico 2023
simulazione online per la prova preselettiva del tfa sostegno didattico 2023
Vuoi metterti subito alla prova? Accedi alla versione demo gratuita del software di simulazione EdiSES. La demo contiene un numero limitato di quesiti, ma è utile per valutare la propria preparazione di base sulle materie oggetto della prova preselettiva.