Emergenza bullismo, questa volta si parla di professori. Che fine hanno fatto il dibattito, il confronto e la sana gestione del conflitto? Derisi in classe, i docenti appaiono in balia di alunni incontrollabili, sembrano fragili, privati del loro ruolo istituzionale: le nuove vittime.
Persi nella Rete, maltrattati dai bulli, ci rimandano una sensazione di sconforto. Ma qualcosa non torna, ripenso al ruolo dell’insegnante che, oggi più di sempre, dovrebbe essere un punto di riferimento. Il progetto educativo che accompagna i nostri giovani verso la consapevolezza dell’età adulta non può prescindere da questo punto di partenza.
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Scuola e famiglia: una condivisione di intenti
Ho conosciuto la professoressa Nicoletta Marino, docente di materie letterarie e psicologa con specializzazione in psicoterapia della famiglia, penso di farle qualche domanda, ho necessità di allargare il mio campo di osservazione.
Nella scuola in cui insegna, il liceo scientifico napoletano Arturo Labriola, è anche la referente dello sportello di ascolto, da sempre a disposizione degli studenti e, da quest’anno, aperto anche ai genitori, che possono portare a scuola i problemi della famiglia e chiedere un aiuto. Questa possibilità mi piace molto, mi sembra un’idea forte, quella condivisione di intenti che mette in campo la relazione, la collaborazione, che organizza reti di supporto.
Raggiungo Nicoletta che, impegnatissima, mi dedica del tempo prezioso, come lo è sempre quel tempo che investiamo per capire la realtà che ci circonda.
L’insegnante come promotore della persona
Velia Cosa deve fare, o meglio, cosa deve essere un insegnante oggi?
Nicoletta La figura dell’insegnante nel tempo è cambiata. La classe docente è passata da una condizione di riconoscimento sociale, forse fino agli anni ’60 e ’70, a una condizione invece di mancato riconoscimento, sociale ed economico, che spesso – non sempre, dipende dai contesti – ha un riflesso anche psicologico.
Le reazioni che si determinano negli insegnanti a partire da questo stato di cose sono molto varie, ma possono essere ricondotte a due principali atteggiamenti, per certi versi, opposti: c’è chi diventa succube, come si vede dai recenti fatti di cronaca o, all’altro estremo di uno stesso continuum, chi si pone su un piano di totale distacco.
Mi chiedi allora “cosa dovrebbe essere un insegnante oggi”, nel corso di un momento storico in cui sono in aumento le difficoltà di adattamento a una realtà difficile, sperimentate in primo luogo dai genitori e poi, inevitabilmente, dai figli. Laddove è sempre più ampio lo spettro dell’adattamento, essere insegnante oggi significa maturare una sensibilità altrettanto ampia, cioè valutare che la propria funzione – che resta quella dello stimolo culturale, della formazione – deve avere un significato più profondo: lo sguardo sul modo di essere dei ragazzi, sulle loro paure, le loro ansie deve essere più acuto.
Per esempio, tra i ragazzi, l’ansia da prestazione è molto diffusa e generalizzata, molti, pur studiando a casa, una volta a scuola, non riescono a sostenere l’interrogazione, oppure non prendono mai la parola nei dibattiti. In questi casi – ancora una volta – essere insegnante oggi significa comprendere le ragioni profonde, per cercare di far uscire dal guscio quelli che sono più involuti, più spaventati e meno capaci di destreggiarsi, perché la scuola deve essere, innanzitutto, il luogo di promozione della persona.
Lo studio come occasione di riflessione sull’intera esistenza umana
Velia Cosa determina la distanza tra un insegnante e la sua classe? Si parla molto di analfabetismo emotivo, riguarda solo i giovani o anche gli adulti che dovrebbero educarli?
Nicoletta Sulla base della mia esperienza personale nel guidare gruppi di docenti, credo che l’insegnante dovrebbe porsi delle domande, confrontarsi, perché laddove c’è un confronto sano sulle diverse prassi educative c’è anche la possibilità di mettersi in discussione ed eventualmente modificare qualcosa.
Nella scuola dovremmo promuovere la cultura del confronto, l’insegnante glaciale, che resta fisso nel suo ruolo, sicuramente potrà essere valido dal punto di vista culturale però, con altrettanta certezza, sarà un professionista che non mette a frutto la totalità della sua funzione. Non si tratta di “mettersi a fare gli psicologi”, ma noi tutti dovremmo acquisire la consapevolezza che riusciremo a far passare meglio la conoscenza e a creare una motivazione più sentita e partecipe se, insieme al sapere, saremo in grado di veicolare anche qualcosa di noi stessi, la nostra personalità, la personale visione del mondo, il senso di quello che facciamo.
L’insegnante che allarga il suo campo d’azione, inevitabilmente, avrà con la classe un rapporto più empatico. A tal proposito, sono convinta che il coinvolgimento emotivo dei nostri studenti è fondamentale, altrimenti il sapere rischia, con alta probabilità, di restare a livello nozionistico, il che è comunque un risultato, ma, se si vuole raggiungere un certo grado di approfondimento, è necessario passare a un’altra forma di rapporto docente/alunno, nella quale si mette in gioco la propria umanità, in cui lo studio diventa l’occasione della riflessione.
Vincere il bullismo lavorando su tutta la classe
Velia In base alle tue esperienze personali e non, pensi che questi fenomeni di bullismo verso i professori siano il segnale di quale malessere? E come immagini si possa affrontare il problema?
Nicoletta Il fenomeno del bullismo è un fenomeno vecchio, oggi tuttavia, con molte casse di risonanza, sembra ampliato e amplificato. Si crea il cosiddetto “contagio emotivo” grazie alla gran quantità di informazioni, ed è facile che questa ondata di aggressione ai docenti, passerà.
Personalmente, penso che il bullismo nasca da una condizione di deserto interiore, ovvero una condizione in cui la persona si trova a vivere in isolamento. È per questo che, nel caso di una mancata comunicazione in famiglia, all’interno della classe, tra gli studenti, è più facile che possano verificarsi situazioni riconducibili a questo fenomeno tristemente noto, mentre in quei contesti in cui c’è un livello di comunicazione più adeguato essi si orientano, o vengono elaborati, o non si verificano più.
L’aggressività fa parte della dotazione umana, ma è chiaro che più è alto il livello di frustrazione dello studente più è alto il rischio di bullismo. Da dove nasce questa frustrazione? Può avere origine da un contesto classe che tende a isolare il ragazzo, che così mette in atto una strategia quasi perversa per ottenere popolarità, oppure può derivare da una situazione familiare di tensione che in qualche modo si riflette sulla vita sociale.
Anche qui, sulla base della mia esperienza, ho visto che intervenendo su tutta la classe, proponendo degli esercizi di immedesimazione, un lavoro di riflessione su quello che accadeva, tutto il gruppo si rasserenava e anche l’elemento turbolento – che “dava fastidio” – in qualche modo veniva assorbito.
In delle classi dove c’era qualche problematica di bullismo ho introdotto un diario di bordo scritto a turno dagli studenti. L’obiettivo era cercare di analizzare i comportamenti e le dinamiche in atto, e di neutralizzarli, o sdrammatizzando, oppure dando il giusto peso ad alcuni eventi, e, qualche volta, coinvolgendo altri insegnanti nel ruolo di mediatori.
Le cose sono andate meglio, i ragazzi hanno preso le distanze da certe situazioni, perché hanno avuto l’opportunità di lavorare sulle emozioni che si vivono all’interno della classe. E proprio questa opportunità, a mio avviso, andrebbe offerta a tutti, magari attraverso periodici appuntamenti dedicati all’educazione emotiva.
Educazione emotiva a scuola: come e chi deve esserne responsabile
Velia Infatti, eccoci al punto! Mi sembra sempre più impellente l’inserimento dell’educazione emotiva come “materia scolastica”, in Danimarca per esempio è prevista un’ora alla settimana dedicata proprio alla sfera emotiva. Immagini una cosa del genere nelle scuole italiane? In che modo si potrebbe inserire questo spazio nei programmi scolastici e chi dovrebbe occuparsene?
Nicoletta Come ti dicevo, lavorare sulle emozioni che emergono in classe, sui vissuti, è fondamentale. Secondo me il compito va affidato ad una persona esterna, un counselor, un pedagogista, lo psicologo della scuola, che raccogliendo le testimonianze degli insegnanti, incontri periodicamente gli studenti favorendone l’interazione e facendo emergere le dinamiche di carattere emozionale.
Se le emozioni vengono espresse, si abbassa il livello di frustrazione e di aggressività, se invece si crea compressione interna alla classe, è facile che si generino fenomeni di bullismo oppure, meno gravi, di insoddisfazione. Un gruppo classe abbastanza coeso e sereno è un gruppo dove generalmente il rendimento è migliore e più omogeneo.
L’importanza del linguaggio usato in classe
Velia Ancora una domanda Nicoletta: quali problematiche arrivano al vostro sportello di ascolto?
Nicoletta Tante, ma, in primo luogo, la paura di non riuscire, di non essere all’altezza, di aver sbagliato indirizzo di studi e intestardirsi nella scelta. Molti hanno paura di deludere le aspettative dei genitori, oppure di cambiare ambiente e proseguono a fatica accumulando frustrazione.
Altre problematiche riguardano il cattivo rapporto con gli insegnanti. Almeno al liceo io sperimento spesso una certa durezza, una inadeguatezza del linguaggio degli insegnanti, poco attenti a pesare le parole. Frasi come “vali zero, sei zero” sono molto comuni, e invece – anche in questo caso – essere insegnante oggi significa rendersi consapevoli che l’uso di un linguaggio tendente alla mortificazione crea tantissima frustrazione e si ripercuote sull’autostima dei ragazzi, i quali si chiudono, non vogliono venire a scuola, alcuni cominciano a mangiare poco.
Proprio rispetto al rapporto con il cibo, mi è capitato spesso di accogliere le preoccupazioni dei genitori in merito al fatto che i propri ragazzi, in prossimità di compiti o di interrogazioni, cominciavano a non mangiare, dimostrando una evidente difficoltà a gestire l’ansia.
È vero che cresciamo i nostri figli in modo molto protettivo e che quindi, quando entrano in contatto con la realtà esterna, spesso manca loro la tempra per reggere l’urto. È vero anche che, da un certo punto di vista, la scuola può essere una palestra per rafforzarsi, per temprarsi. Tuttavia, ancora una volta, è molto importante che noi docenti sorvegliamo il nostro linguaggio, che non riduciamo la persona al voto, alla performance, aspetti comunque importanti, ma che non devono diventare delle etichette descrittive di entità ben più complesse come sono i giovani della cui formazione abbiamo la responsabilità.
L’adolescenza come età di esplorazione
Nicoletta Altre problematiche riguardano i rapporti interpersonali. Nell’adolescenza cominciano le problematiche con l’altro sesso, una difficoltà di comunicazione generalizzata, aggravata anche da un linguaggio povero dal punto di vista lessicale, che non aiuta a esprimere i propri sentimenti. Mi è capitato di confrontarmi con casi di identità di genere, due in due anni, quindi non so quanto statisticamente significativi, ma che mi hanno dato l’opportunità di riflettere su un aspetto a mio avviso importante: in questa fase della vita, i ragazzi cominciano a prendere consapevolezza della loro identità, e a sollecitarli, a spingerli a parlarne possono essere i compagni prima ancora della famiglia, perché spesso questa non vuol vedere o sentire, creando una sensazione di rifiuto nel ragazzo, il quale si sente respinto proprio da chi dovrebbe invece accoglierlo più degli altri.
Personalmente, credo che l’adolescenza sia l’età dell’esplorazione di noi stessi, nulla è rigidamente fissato, nulla vieta di tornare sulle nostre scelte. Quindi, quando mi trovo ad affrontare con i ragazzi delle problematiche che coinvolgono profondamente l’identità della persona, cerco di non drammatizzare, perché in questa delicatissima fase della vita di ciascuno di noi ci imbattiamo in aspetti diversi del nostro Sé, un Sé che ancora non ha deciso chi essere.
Scuola e famiglia insieme, con continuità
Nicoletta Forse la difficoltà maggiore che ho riscontrato è quella di creare una continuità, i ragazzi vengono allo sportello una due volte e poi non tornano più, ci vorrebbe un po’ di collaborazione da parte degli insegnanti e delle famiglie: il mantenimento del rapporto è la cosa più difficile.
Da quest’anno, ti accennavo, abbiamo aperto alle famiglie, e con i genitori ho affrontato, in particolare, i problemi di condotte autolesionistiche. La tendenza a praticarsi piccoli tagli superficiali sulla pelle è abbastanza frequente, le motivazioni più comuni sono la delusione d’amore e la frustrazione scolastica. In questi casi ho chiesto il permesso di convocare i genitori, perché volevo che accogliessero questa problematica e che partecipassero di più alla vita dei loro figli.
La privacy dei ragazzi va sempre rispettata, ma ho riscontrato che tutti sono felici quando non c’è invasione bensì partecipazione, curiosità verso ciò che accade loro, quando si cerca l’alternativa. Se c’è partecipazione e non sottovalutazione o indifferenza i ragazzi tendono a reagire costruttivamente, perché percepiscono che la scuola e la famiglia si attivano insieme per aiutarli a sostenere la sofferenza psicologica che stanno sperimentando.
Dove c’è l’accoglienza, dove c’è la sintonia affettiva, emotiva, il ragazzo si sente meno solo e i genitori hanno l’occasione di riflettere sul fatto che il loro atteggiamento, in alcuni casi, può andare in collisione o non essere adeguato ad accogliere la sofferenza dei loro figli, e, quando questo accade, possono trovare degli strumenti per cambiarlo.
Essere insegnante oggi: un ruolo “aumentato”
Nicoletta deve andare via, ha i consigli e sono già le 19.00… saluto e ringrazio, porto con me una bella testimonianza, di passione e dedizione. In una società in cui la cultura sembra essere qualcosa di assolutamente funzionale, la famiglia appare spesso disgregata e i valori sono iperindividualisti e molto spesso superficiali, inevitabilmente i docenti sono chiamati ad aumentare la consapevolezza del proprio ruolo tra mente e cuore, ad aumentare la sensibilità verso gli studenti, e questa relazione chiede un investimento più ampio – anche questo “aumentato” – sul piano emotivo, culturale, affettivo.