E se per una volta andare in controtendenza non fosse solo originale, ma anche efficace per trovare delle soluzioni ad alcuni dei problemi che affliggono le famiglie, le scuole e, più in generale, la società?
In un mondo in cui l’indifferenza verso l’altro è un fatto quotidiano, la socialità virtuale si trasforma in un isolamento reale e la cronaca bombarda con le sue notizie di una generazione che Umberto Galimberti definisce degli “indifferenti a basso quoziente emotivo”, le neuroscienze, la psicologia e le scienze dell’educazione in genere riportano al centro dell’interesse collettivo le emozioni: individuate, gestite, modulate, ma soprattutto condivise.
Gli argomenti dell'articolo
La ricerca di Daniel Goleman
È il 1990 quando Peter Salovey e John D. Mayer parlano per la prima volta di Emotional intelligence, ma solo nel 1995 questo nuovo concetto diventa il fulcro intorno al quale ruota la ricerca dello psicologo Daniel Goleman, finalizzata a trovare delle soluzioni per la crisi sociale dilagante negli Stati Uniti di fine millennio. Nel suo Emotional intelligence. Why it can matter more than IQ (Intelligenza emotiva. Che cos’è, perché può renderci felici, Bur 1996), rivoluziona l’idea classica di quoziente intellettivo e spiega il perché di un fatto che è ormai noto a tutti, e cioè che un alto QI non basta a garantire il successo o la felicità.
L’interesse della sua intuizione non sta solo nell’aver individuato l’interconnessione profonda tra la mente razionale e la mente emotiva di ciascun individuo nella determinazione del proprio destino, e non tanto nell’aver definito le principali capacità dell’intelligenza emotiva, bensì nell’aver sottolineato che la competenza emozionale non è qualcosa di preesistente e predefinito, tutt’altro, è una abilità che può essere sviluppata.
Lavorare sulle emozioni: quando, dove, come
Se quindi si può fare qualcosa per modificare la sfera delle emozioni di ciascun individuo, è anche possibile migliorarla e, di conseguenza, nessuno è condannato ad avere un “basso quoziente emotivo”, tantomeno un’intera generazione. Da ciò, la necessità di individuare il momento, il luogo e il modo migliori, nella vita delle persone, per lavorare sulle loro emozioni, aiutandole a riconoscerle, a comprenderle, a dominarle senza reprimerle, a trasformarle in uno strumento prezioso per la conoscenza dell’altro da sé, in sintesi, a gestirle. Da ciò, la necessità di passare dall’intelligenza emotiva all’educazione emotiva.
Quando
In merito al momento, tra gli addetti ai lavori – neuroscienziati, psicologi, pedagogisti ed educatori – è diffusa la convinzione che prima si interviene e meglio è. Già Freud era convinto che le mappe cognitive ed emotive che accompagnano l’essere umano per tutta la sua vita si formassero nei primi sei anni di età, ma le più recenti acquisizioni delle neuroscienze dimostrano che il loro sviluppo completo avviene entro il terzo anno: “è tra zero e tre anni che si diventa qualcuno”, ne è convinto Galimberti (D di Repubblica 26 marzo 2016).
Ciò tuttavia non deve spaventare, portando a pensare che a quattro, dieci o diciotto anni sia già troppo tardi per qualsiasi cambiamento e – perché no? – miglioramento, deve invece dare un’indicazione importante a coloro che sono chiamati in prima fila nella formazione degli individui, cioè i genitori e gli insegnanti.
Dove
E così si arriva direttamente alla questione del luogo: dove avviene la formazione emotiva delle persone e dove è possibile offrire quella che lo stesso Goleman chiama “alfabetizzazione emozionale”?
La risposta è scontata, immediatamente dopo la famiglia, e in stretta collaborazione con questa, è la scuola lo spazio ideale per lavorare sulle emozioni, perché è il luogo in cui la maggior parte degli individui passa più tempo negli anni fondamentali della propria formazione e perché quel tempo è molto significativo in termini di trasmissione di valori, oltre che di conoscenze.
Di fronte a una generazione di bambini e ragazzi con una spiccata tendenza alla solitudine, all’aggressività, alla depressione, al nervosismo e a problemi emozionali di ogni forma e dimensione (situazione per cui non serve andare a scomodare studi scientifici, ma basta leggere le pagine della cronaca), Goleman indica un rimedio nel modo in cui “prepariamo i nostri bambini alla vita”.
Un’educazione emozionale affidata al caso non è la soluzione, come dimostrano i disastrosi risultati sotto gli occhi di tutti, lo è invece soffermarsi a pensare cosa “la scuola può fare per educare l’individuo come persona, ossia mettendo insieme mente e cuore”.
Come
In che modo definire allora le strategie migliori per un’azione in questa prospettiva, che non interferisca con l’insegnamento delle materie tradizionali, ma che anzi lo favorisca? È in tale direzione che si muovono le ricerche più recenti di pedagogisti, educatori, psicologi, formatori, per la strutturazione di metodologie – efficaci – attraverso le quali lavorare sulle emozioni in classe, senza che ciò diventi però un aggravio di lavoro o di formazione per gli insegnanti.
La convinzione generale tra gli addetti al settore è che l’educazione emotiva in aula non deve in nessun modo diventare una disciplina a sé, rigidamente intesa, da aggiungere alle materie curricolari e per la quale l’insegnante sia chiamato a trovare il tempo, il luogo e i materiali necessari al fine di sviluppare e portare a termine il programma.
Deve e può, invece, diventare una compagna di strada dei saperi cognitivi, dello sviluppo delle competenze e delle abilità progressivamente più approfondite che costituiscono da sempre l’obiettivo primario della scuola e che oggi non sono più ritenute sufficienti per la formazione degli individui nella globalità della loro persona.
Per “imparare a imparare”, e acquisire così una delle otto competenze-chiave richieste dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Unione europea (Raccomandazione del 18 dicembre 2006) per un “apprendimento permanente”, che cioè duri e si alimenti lungo tutto l’arco della vita, ciascun individuo non può prescindere dal raggiungimento della propria autonomia come soggetto che apprende ma, ancor prima, come persona.
Educare alle emozioni: il ruolo degli insegnanti
Sviluppare l’autonomia significa avere fiducia in sé e fidarsi degli altri; provare soddisfazione nel fare da sé e saper chiedere aiuto o poter esprimere insoddisfazione e frustrazione elaborando progressivamente risposte e strategie; esprimere sentimenti ed emozioni; partecipare alle decisioni esprimendo opinioni, imparando a operare scelte e ad assumere comportamenti e atteggiamenti sempre più consapevoli.
È con queste parole che nelle Indicazioni Nazionali del 2012 viene descritto lo sviluppo dell’autonomia, uno dei tre principali obiettivi (insieme allo sviluppo dell’identità e delle competenze) che si pone la scuola dell’infanzia italiana: si può cominciare molto presto il viaggio nel proprio mondo emozionale per imparare a conoscerlo e a gestirlo! E, subito dopo i genitori, o insieme a loro, sono gli insegnanti i principali soggetti su cui ricade questa responsabilità.
Il ruolo dell’insegnante, poi, diventa ancora più centrale nei casi in cui la famiglia non sia riuscita, e non riesca, a dare un contributo significativo all’educazione emotiva del proprio figlio. Educatori, maestri e professori sono quindi chiamati a fornire ai propri alunni gli strumenti emotivi e relazionali oggi ritenuti utili a prevenire o contrastare una serie di disagi molto comuni – come la tendenza allo “sballo”, all’aggressività, all’isolamento, alla passività, ai disturbi alimentari – che possono divenire molto pericolosi per la persona e per chi la circonda, nonché intralciare significativamente le attività di apprendimento di saperi e competenze.
Un compito nient’affatto semplice quindi, che consiste nel diventare dei somministratori di quanto Ulisse Mariani e Rosanna Schiralli definiscono “un vaccino psicologico” (Intelligenza emotiva a scuola, Erikson 2012), che si traduce nell’“attivare, costruire, implementare, comunque insegnare le capacità di identificare, gestire e modulare il mondo emozionale interno”. Secondo i due psicologi e psicoterapeuti ideatori del metodo Didattica delle emozioni:
Si tratta di allenare con continuità, utilizzando alcune tecniche in base all’età degli alunni, alla più adeguata decodifica delle proprie emozioni e degli stati d’animo altrui, in modo da attivare quei canali comunicativi profondi e quella sensibilità interna che concorrono insieme alla costruzione dell’empatia.
Sono parole molto dense queste! Che chiamano in causa concetti importanti – emozioni, continuità, comunicazione, empatia – tutti ugualmente caratterizzati da una connotazione fortemente positiva. Ma, in che modo si possono tradurre in pratica? E come si può rendere tale pratica sostenibile in termini economici, di tempo e di energie?
Chiunque sia chiamato a un ruolo educativo e, in particolare, chiunque operi nella scuola, sa che la risposta a queste domande non è affatto semplice, né immediata e nemmeno facilmente reperibile. Le più recenti acquisizioni scientifiche in grado di offrire delle indicazioni in merito, attualmente, faticano a trasformarsi in un progetto organico, dalla connotazione spiccatamente operativa e, soprattutto, condiviso dalla scuola su scala nazionale e istituzionale.
Molto, forse troppo, è affidato alla buona volontà dei singoli che ambiscono a una adeguata e continuativa formazione e, con questo obiettivo, seguono gli sviluppi sull’argomento e cercano libri, articoli, blog, corsi e ogni tipo di iniziativa messa in atto da chi, a vario titolo, ha posto al centro del proprio interesse e del proprio lavoro l’“educazione emotiva”.
E allora è qui che vogliamo inserirci, nello spazio che nasce intorno alle esigenze di approfondimento su questa tematica, ma che soprattutto si origina dalla necessità di trovare indicazioni pratiche su come portare nelle classi una riflessione in merito a quella sfera emotiva che tanta parte ha nell’apprendimento, in tutte le fasi del percorso scolastico.
Vi proponiamo di compiere un viaggio insieme a noi, alla scoperta delle teorie più recenti, dei testi più interessanti, dei corsi più utili, dei materiali e degli strumenti più efficaci da usare in classe, delle favole e dei racconti più “emozionanti”. Un viaggio in cui vorremmo condividere con voi il nostro interesse per il “mondo del cuore”, affinché questo possa diventare, oggi e sempre più in futuro, il completamento, e mai l’alternativa, a quello della mente nella formazione di individui che siano pienamente umani.
Il primo contributo che Occhicielo educare con le fiabe vuole dare a questo percorso da compiere insieme è il racconto Verdolina scopre il mondo. Un fantastico viaggio nelle emozioni, una storia di fantasia, rivolta a bambini tra i 5 e gli 8 anni, che vuole aiutare ad aprire un dialogo reale con i più piccoli sulle vere emozioni che agitano il loro animo… e anche il nostro.