Noi pensiamo che a settembre non debba “riprendere” la scuola, ma “nascere” una scuola nuova.
Ho sempre provato una grande ammirazione per chi riesce a sintetizzare in poche, dense parole un contenuto straripante di significato. Ed è appunto ammirazione quella che nutro per Paolo Limonta, capace di condensare in una frase un’idea che è anche un agire concreto.
L’idea è quella di una Scuola sconfinata, aperta, affettiva, radicata sul territorio, inclusiva, capace di fronteggiare l’emergenza covid-19, così come ogni altra, senza disperdersi. L’agire è quello delle persone eccezionali che, da più di un anno e con sempre maggiore intensità, hanno deciso di rispondere a una domanda: E tu da che parte stai?
E la risposta è una, decisa, coerente:
Dalla parte delle bambine e dei bambini, delle ragazze e dei ragazzi!
Lo è stata quando il coronavirus non sapevamo nemmeno cosa fosse e dovevamo confrontarci con la marginalità che i più giovani rivestivano nella nostra società, lo è adesso, mentre questo microscopico ospite indesiderato ci costringe a fronteggiare una delle emergenze più eccezionali della nostra storia, e ai margini ci siamo finiti in tanti, tutti.
Gli argomenti dell'articolo
Una scuola sconfinata perché mette i giovani al centro del territorio
Ma non è solo per la sua capacità con le parole che ammiro Paolo. E non è nemmeno per la convinzione con cui è un maestro felice di bambini felici, né per la volontà di trasformare il suo Assessorato all’edilizia scolastica nell’Assessorato alle nuove architetture per l’apprendimento.
Sì, lo so, basterebbe eccome! Eppure la mia ammirazione per lui ha origine nel nucleo da cui il suo agire parte e in cui si alimenta, e cioè nella visione che ha dell’educazione, a scuola e fuori, una visione che mette al centro i più giovani e il loro bisogni, sempre, senza però lasciarli lì, isolati in una bambagia protettiva e asfissiante, ma rendendoli il cuore pulsante di una rete di relazioni e legami in cui tutti sono chiamati a contribuire, una rete fortemente allacciata con il territorio e le persone che lo abitano.
È una visione questa che condivide con Antonella Meiani – vulcanica insegnante felice di bambini felici che gli amici di Occhicielo conoscono bene – collega e amica con la quale Paolo ha fondato il Movimento E tu da che parte stai?. Una visione che insieme traducono ogni giorno in un agire concreto in classe e fuori, grazie all’impegno, alle competenze e all’entusiasmo personali e dello straordinario gruppo di esseri umani che in questo Movimento si riunisce e raccoglie.
Quanto straordinario – se non lo conoscete già – potete scoprirlo da soli guardando, al link sotto, il convegno web che ha saputo organizzare il 10 maggio scorso per costruire insieme La scuola sconfinata. Qui, nel frattempo, vi dico perché è straordinario per me.
È straordinario perché è un Movimento che “si muove” e sa adattarsi alle istanze di una realtà che si modifica. È straordinario perché guarda i problemi, li analizza, ne discute confrontandosi nel rispetto delle diversità di vedute. È straordinario perché trasforma le criticità in occasioni per fare delle proposte concrete di cambiamento.
Sì, proposte! E concrete. Perché settembre è vicino e la scuola, con le persone che la fanno, deve rendersi soggetto attivo nella organizzazione sicura di una istruzione post covid-19.
Una scuola sconfinata perché è attiva e aperta
La sicurezza è una questione sociale e noi, come docenti, dobbiamo, non solo aspettare le direttive, ma occuparci attivamente di come si creano classi sicure.
Le parole di Cesare Moreno, presidente dell’Associazione Maestri di strada, mi sembrano esprimere bene un aspetto fondamentale emerso nel confronto intorno al nucleo tematico che ha aperto il convegno e sul quale sto facendo qui con voi una prima riflessione: La scuola di tutte e di tutti non è un problema tecnico.
È un aspetto che, a mio avviso, si può ricondurre al ruolo che la scuola – intesa come tutte le singole scuole operanti sul territorio nazionale – può e deve assumere nella riorganizzazione di una sicura ed efficace didattica in presenza. Un ruolo attivo e propositivo, impegnato alla creazione di una “rete” di relazioni tra istituti e di questi con il territorio.
Attività e proposte, dunque, animate da un modo di pensare la scuola e l’educazione condiviso e da condividere, attività e proposte mirate alla creazione di quello che Milena Piscozzo, dirigente dell’Istituto comprensivo Riccardo Massa, definisce “un sistema integrato”, che presuppone cioè “una messa in comune di competenze e risorse, strutturali e umane, ma innanzitutto, di pensiero” tra la scuola e il terzo settore, per riportare i giovani “all’interno di ambienti educativi strutturati”.
Ambienti non virtuali, che gli istituti scolastici, con l’aiuto delle amministrazioni comunali, e proprio grazie alla collaborazione con il terzo settore, devono cercare, individuare e mappare, perché la didattica a distanza può essere sicuramente “uno strumento per curare i legami con gli studenti”, come fa notare la stessa Piscozzo, e anche una occasione per “potenziare gli apprendimenti in situazioni informali, ma solo se usata per proporre un sapere aperto” e non frazionato o ridotto in pillole, come osserva invece Cesare Moreno.
Uno strumento di certo utile quindi, se sfruttato con le giuste competenze tecniche, comunicative e psicologiche, ma inadeguato a sostituire la didattica in presenza e che, purtroppo, penalizza tutti quegli studenti protagonisti di situazioni scolastiche, sociali e familiari difficili, proprio quelli cioè che più hanno bisogno della scuola per non disperdersi, o meglio ancora, per non perdersi.
Una scuola sconfinata perché non dimentica di includere
Perché è proprio questa l’emergenza nell’emergenza: i danni che stanno subendo i più fragili.
La lunga assenza dalla scuola compromette l’apprendimento e lo sviluppo dei più giovani e ciò penalizza soprattutto gli studenti che hanno più bisogno di istruzione. Se non si interviene subito, e in maniera decisa, l’effetto di queste carenze può compromettere tutta la loro vita, con il rischio concreto di causare un impoverimento generale.
È con forza che Miriam Petruzzelli, docente di sostegno nella scuola secondaria di primo grado Madre Teresa di Calcutta di Milano, porta l’attenzione su uno studio pubblicato dall’Economist. La capisco bene questa forza, perché il disagio dei più giovani è un dato di fatto, anche senza scomodare grandi nomi. Chiunque stia vivendo questa emergenza con dei bambini o dei ragazzi sa bene quali sono gli effetti del distanziamento sociale e li vede, giorno dopo giorno, assumere la forma di tristezza e rabbia, mancanza di attenzione, concentrazione e motivazione, perdita di interesse e inerzia.
Per questi giovani bisogna agire subito, perché oggi tutti gli studenti hanno dei Bisogni Educativi Speciali e la scuola, la società devono dare delle risposte.
L’emergenza ha fatto uscire la scuola dalle aule dando spazio a nuovi modi di apprendimento. Ma la scuola dalle aule deve uscire sempre, per aumentare la prossimità con gli alunni e con la comunità, per farsi un punto di riferimento educativo per tutto il territorio in cui opera.
Ribadisce questa necessità di apertura, di dialogo e di rete Miriam Petruzzelli, con la sicurezza di chi la scuola la vive e sa che “queste pratiche non sono nuove, ma ora vanno rilanciate, condivise e sistematizzate”. La sua proposta concreta su come fare?
Dobbiamo cominciare dalla fine. Dobbiamo partire dalla considerazione che l’apprendimento è la facilitazione di vissuti ed esperienze significative. Dobbiamo quindi progettare a partire dall’ascolto dei bambini e dei ragazzi nelle situazioni più fragili. Perché l’inclusione è l’inclusione del fare.
Una scuola sconfinata perché continua a parlare più lingue
Ha proprio ragione Miriam Petruzzelli, l’inclusione si realizza con il fare, meglio ancora, con il fare insieme, e ciò vale più che mai quando riguarda delle giovani persone che non parlano la nostra lingua, quella stessa lingua che è il primo collante della comunità classe a cui appartengono.
Sono soprattutto i bambini non italofoni a risentire di questo lungo tempo senza scuola, l’apprendimento di una lingua avviene in relazione, nella quotidianità dei gesti e nel fare insieme, nel fruire delle stesse esperienze e dei racconti, grazie all’esposizione feconda e intensa. Alla ripresa, bisognerà trovare occasione e modi per riprendere il filo dei racconti che si sono perduti in questi mesi. Serviranno tempo, azioni mirate e attenzioni protratte per riparare il cammino interrotto.
È con queste parole di Graziella Favaro che apre il suo intervento Antonella Meiani, parole di cui conosce la concretezza data la sua esperienza come maestra della scuola primaria del Parco Trotter di Milano, in cui il 60% degli alunni ha origini straniere.
Lo sa bene Antonella quanto può essere complesso comprendere i bisogni di una bambina o di un bambino – e delle loro famiglie – quando c’è di mezzo l’ostacolo della lingua o della cultura o di entrambe, che rende difficile cogliere proprio quei dettagli e quelle sfumature fondamentali per fare la differenza nel dare una risposta che risponda davvero.
Lo sa bene Antonella – e con lei i molti insegnanti che si confrontano con classi multiculturali – quanto sono importanti i mediatori linguistico-culturali e quanto siano essenziali i laboratori di Italiano L2 che il Comune, attraverso i Poli Start, mette in campo in collaborazione con gli istituti scolastici per promuovere l’accoglienza delle famiglie straniere.
Ed è per questo che la sua proposta concreta per “riparare il cammino interrotto” mette al centro proprio i mediatori linguistico-culturali, ai quali garantire una maggiore caratterizzazione delle competenze educative, tramite una formazione specifica, possibile se agli attuali finanziamenti comunali si aggiungessero quelli degli stessi istituti scolastici in cui i mediatori operano.
Perché sono figure preziose, che possono diventare protagoniste nella progettazione educativa al fianco dei docenti nelle situazioni più difficili, quelle in cui c’è bisogno di tenere unita e coesa la comunità classe.
Una scuola sconfinata perché è vicina
Ma la scuola non deve avere solo la capacità di parlare più lingue, deve anche conoscere e usare più linguaggi. E uno dei più importanti, in questa situazione e sempre, è il linguaggio affettivo, quello con cui si parla al cuore con il cuore, l’unico veramente capace di superare qualsiasi tipo di distanza.
Stiamo vivendo una frattura dell’alleanza intergenerazionale, testimoniata dai comportamenti infantili dei grandi del mondo. Noi siamo i grandi che vogliono essere amici dei bambini e vicini a loro. È per questo che abbiamo ritenuto di dover farci vedere e abbiamo realizzato gli incontri distanziati del III tipo, cioè: distanza sì, ma con contatto visivo.
Mi fanno riflettere le parole di Cesare Moreno, questa necessità di guardarsi negli occhi anche attraverso uno schermo per sentirsi vicini. Non mi sorprendono però, perché le nostre emozioni passano prima di tutto dal volto, trapelano dalle nostre espressioni anche quando cerchiamo di mascherarle e, per chi sa leggerlo, uno sguardo può dire moltissimo del cuore che lo governa, soprattutto quando si muove in sintonia con un linguaggio amichevole, vicino, che è il vero “antidoto alla didattica a distanza”.
E probabilmente è proprio l’antidoto alla distanza anche senza didattica, poiché capace di far sentire ai giovani che gli adulti non li hanno abbandonati, che sono vicini. Perché trasmettere agli studenti la vicinanza della scuola e di tutta la comunità sociale è un bisogno essenziale per ripartire.
Mi piacerebbe che il giorno del rientro a scuola fosse un rito collettivo e che quella data diventasse un giorno di festa nazionale: la Festa di riapertura della scuola dopo il covid. Da celebrare con striscioni e musica coinvolgendo tutta la città, una città intera che accompagna i suoi giovani.
È questa la proposta di Raffaele Mantegazza, professore associato di Pedagogia interculturale alla Bicocca, per far sentire la vicinanza della comunità ai suoi giovani, ma vicina deve essere anche la scuola, che, pur nell’organizzazione di gruppi e turni, deve mostrarsi disposta ad ascoltare le ragioni affettive dei suoi studenti, affinché possano fare scelte semplici ma emotivamente significative come, tra tante altre, decidere, “dopo sei mesi lontani da un banco, l’amico con cui in quel banco sedersi”.
E, infine, ma non ultima, vicinanza tra gli studenti stessi, anche se divisi in gruppi, che può realizzarsi dando loro la possibilità di lasciare messaggi e tracce ai compagni con cui non condividono i turni, messaggi e tracce utili anche a costruire una narrazione di quello che accade e che è accaduto per non perderne la memoria, per non perdere l’occasione di pensare ai bisogni educativi dei ragazzi dalla loro voce e dalla loro esperienza.
Una scuola sconfinata perché sperimenta con lungimiranza
Mi piace molto questa idea di una narrazione fatta con la voce dei bambini e dei ragazzi, quella da ascoltare anche secondo Federica Lucchesini, formatrice del gruppo di Milano del Movimento di cooperazione educativa.
Nella costruzione di una visione nuova della scuola, una componente fondamentale dovrà essere quella dei bambini e dei ragazzi, nel senso che, se noi troveremo le parole emozionanti, autentiche, poetiche, popolari per spiegare loro quello che sta accadendo, e cioè che ci saranno prove, sbagli, invenzioni di altri luoghi, spazi, altre figure educative, altri tempi, saperi, loro daranno un contributo di partecipazione e di organizzazione straordinario.
Il contributo dei bambini e dei ragazzi per sperimentare insieme e trovare nuovi modi di fare scuola dunque, non solo e non tanto per dare una risposta alle esigenze immediate dell’emergenza, ma per mettere in atto un cambiamento che sia di lungo tempo, “lungimirante”, “per il bene e la salute di chi verrà dopo”.
Da ciò la proposta di una “stagione istituente”, un intero anno scolastico “di organizzazione, per sperimentare, discutere e riscrivere protocolli, leggi, regole, modalità, tutti elementi fondamentali per tenere in debito conto la natura istituzionale della scuola, quella stessa natura che in passato l’ha resa refrattaria alle richieste di cambiamento e ai bisogni”.
Una scuola sconfinata da costruire adesso
Che meraviglia queste proposte! Le riascolto, le rileggo e le trovo sempre più belle… ma quanto sono difficili da attuare! Non lo vorrei scrivere perché non vorrei nemmeno pensarlo che sono così difficili. Poi però mi tornano in mente proprio le parole con cui Federica Lucchesini ha concluso il suo intervento e mi rianimo. Le riscrivo qui per voi, con la speranza che abbiano lo stesso effetto per chi le legge.
Noi dobbiamo fare come se si potesse fare, o adesso o mai più!
È una grande occasione questa, sarebbe un peccato sprecarla, io ho deciso che farò come se si potesse fare, per dare il mio contributo affinché si faccia. E tu, da che parte stai?