Ci siamo arrivati, si può usare lo smartphone in classe. Un ampliamento dei contenuti, uno strumento per documentare, informare in tempo reale, una possibilità in più per rendere consapevoli i nostri ragazzi. Sarà l’insegnante, adeguatamente formato, a disciplinarne l’uso, a fini didattici, facendo leva sulla responsabilità e la capacità critica degli alunni, ma soprattutto su una nuova e moderna organizzazione della didattica stessa.
Uno strumento aggiuntivo quindi, usato con consapevolezza, innanzitutto dagli studenti, ma sempre sotto la guida capace e attenta dell’insegnante. L’investimento di 25 milioni di euro previsto dal Piano Nazionale della Scuola Digitale per la formazione dei docenti sulla cultura e le metodologie digitali, ci fa capire che il ruolo svolto da chi la classe deve guidarla va considerato in tutta la sua importanza!
“Per la competenza vera degli studenti, c’è bisogno della competenza degli insegnanti.”
Sono le parole del professore
Adriano Fabris, membro del
Gruppo di lavoro del Miur per la valutazione dell’uso dei devices personali in classe, che stabilisce le linee guida di questa novità: “una nuova alleanza tra insegnanti e studenti per sfruttare al meglio la tecnologia”.
L’argomento mi interessa molto, lo smartphone è già un prolungamento esistenziale dei nostri ragazzi, che si possa usare anche a scuola non sarà troppo? E pensando a questo, mi pongo immediatamente altre domande, sull’editoria digitale per esempio, sui videogiochi, sulle chat di whatsapp…
Navigando in rete leggo che il professor Fabris insegna Etica della comunicazione all’Università di Pisa ed è presidente del Cico (Centro Interdisciplinare di ricerche e di servizi sulla Comunicazione), un esperto di queste tematiche.
Sempre più curiosa decido di rivolgere a lui un po’ delle domande che mi affollano la mente, e lui, con grande semplicità, mi risponde…
I videogiochi e l’apprendimento: amici o nemici?
Pensando ai dispositivi digitali, mi ricordo di una notizia piuttosto recente che mi aveva molto colpito: i videogiochi saranno nel programma ufficiale dei Giochi olimpici del 2020. Personalmente, non penso che siano da demonizzare, anzi, ma la correlazione tra un loro uso eccessivo e la difficoltà di concentrazione a casa e a scuola è ormai una certezza: il cervello si abitua a un livello di tensione nervosa molto alto con il rischio di una vera e propria dipendenza da questo tipo di sollecitazioni intense e veloci.
Penso allora ai tempi del processo educativo, diversi, più lenti, indispensabili per sviluppare una capacità profonda di apprendimento, per interiorizzare la conoscenza, assimilare il sapere, e così rivolgo al professor Fabris la mia prima domanda.
Velia Pensa che si possa fare qualcosa per arginare il fenomeno e, viceversa, sfruttarlo al fine di migliorare e ampliare la preparazione scolastica?
Il professore va subito al nodo della questione.
Fabris Non si tratta solo di utilizzare o meno i videogiochi: si tratta, più in generale, del modo in cui ci troviamo a interagire quotidianamente con i dispositivi digitali. Anche questi, infatti, agiscono, dischiudendoci mondi virtuali e ampliando le nostre possibilità di relazione. Si tratta di problemi che non possono essere trascurati. Non possiamo far finta che, anche attraverso i dispositivi digitali e l’utilizzo dei loro programmi, non si possano acquisire specifiche conoscenze. Pensiamo alla simulazione del pilotaggio di un aereo: non è solo un gioco, ma serve anche ad addestrare i piloti.
La questione è dunque quella di apprendere correttamente – e di insegnare ad apprendere correttamente – anche attraverso i dispositivi tecnologici, e mediante quei programmi o applicazioni che li fanno funzionare. L’apprendimento attraverso i libri è interpretativo e sequenziale; quello attraverso le nuove tecnologie è per lo più sinottico e connesso a immagini. L’errore è credere di poter sostituire l’una modalità con l’altra: perché il risultato, in questo caso, sarebbe per noi una perdita. Bisogna invece essere in grado di aggiungere, di
aumentare le nostre capacità, anche con il ricorso alle tecnologie, allo scopo di aprirci sempre nuove possibilità di relazione con il mondo.
Smartphone a scuola: un buco nell’acqua come per il tablet?
Mi viene in mente allora che il tentativo di “aumentare le nostre capacità, anche con il ricorso alle tecnologie” era già stato fatto dalla scuola e, di fatto, è ancora in corso. Penso all’uso del tablet, supporto leggero, versatile, già dotato della possibilità di spaziare dal testo all’ipertesto, che però non è mai decollato veramente.
Forse il problema è strettamente connesso alla fortuna dell’ebook, che sembrava destinato a far scomparire ogni libro dalle nostre librerie e che, invece, rappresenta ancora un prodotto poco diffuso e poco usato, soprattutto per lo studio, probabilmente a causa di quel suo testo fluido, “liquido”, con una diversa impaginazione e impostazione grafica a seconda del supporto.
Eppure gran parte del nostro sapere passa per la Rete, sembra impossibile che per l’apprendimento scolastico sarà diverso. Così chiedo al professore Fabris anche questo.
Velia Secondo lei è solo una questione di abitudine o c’è una reale difficoltà?
E lui, ancora una volta, va dritto al nucleo del discorso:
competenza,
capacità critica e
responsabilità.
Fabris Certamente la lettura su un tablet o, in generale, su un supporto elettronico è differente rispetto a quella mediante un libro. Girare le pagine è ben diverso che scorrere un cursore: la percezione della totalità della narrazione emerge in un’altra maniera, così come il rapporto fra parte e tutto. In ogni caso, però, che i contenuti passano attraverso la Rete è ormai una certezza, un dato di fatto. La questione vera allora è un’altra, e cioè acquisire le competenze per rapportarsi al web con capacità critica e responsabilità.
Un nuovo modo di leggere accanto al vecchio
Sì, lo penso anch’io, non è tanto una questione di supporto, ma di chi e come su quel supporto legge, del suo senso critico, attraverso cui naviga nel testo o nella Rete partendo da se stesso e portando quel sé nel viaggio, con la sua capacità di selezionare, scartare, valutare.
Mi soffermo allora sulla lettura, su quello che rappresenta per la mia generazione, un’esperienza personale e intima capace di creare un legame affettivo con la storia e con lo stesso oggetto libro. Una lettura diversa, solitaria, ma forse più appassionata. Anche adesso si legge, e tanto, ma in modo più frammentato. In centinaia di blog si parla di narrativa, i classici sono disponibili gratuitamente e di facile accesso. È una lettura quasi corale. E così domando ancora.
Velia Ma veramente è cambiato solo il modo di leggere o, secondo lei, le nuove generazioni si stanno perdendo qualcosa rispetto al tipo di relazione affettiva con le storie, con i libri? Noi che ci siamo formati sulla lettura analogica, ma ormai siamo immersi anche in quella digitale, possiamo fare qualcosa per fare da tramite tra due modi/mondi di leggere?
Il mio interlocutore mi riporta all’idea di “
aumentare le possibilità”, quindi aggiungere nuovi modi ai vecchi, sfruttando le potenzialità di entrambi.
Fabris Per noi la lettura era anche un modo per isolarci e per cercare, attraverso il libro, noi stessi. Non è un caso che Agostino d’Ippona proprio grazie alla lettura di un libro – anzi, del Libro per antonomasia, la Bibbia – comprende il fatto che “in interiore homine habitat veritas”. Oggi, nell’epoca delle Reti sociali, anche la lettura si trasforma: possiamo condividere le nostre riflessioni, i nostri sentimenti, i nostri giudizi con gli altri lettori. Possiamo comunicare in tempo reale ai nostri amici come valutiamo un testo. Questa possibilità di condivisione non è certo un male. Basta tuttavia, di nuovo, che essa non divenga l’unico modo che abbiamo per rapportarci a qualcosa di scritto.
Dalla condivisione virtuale a quella reale
No, non è certo un male questa possibilità di condivisione, tuttavia non posso fare a meno di pensare a quando viene usata per diffondere online e in maniera virale delle scene agghiaccianti, rispetto alle quali sembra quasi che il Sé dei nostri giovani, quello che dovrebbe essere presente con le sue emozioni e le sue capacità di percezione e ragionamento, risulti invece assente. E questa assenza non si manifesta solo davanti a un video, ma anche nella realtà, quando si trasformano in spettatori freddi e distanti di scene di violenza e bullismo, senza provare alcuna partecipazione emotiva per la vittima.
Non riesco a farmi una ragione di quella che mi sembra una sorta di “anestesia dei sentimenti”, è per questo che rivolgo al professor Fabris un’altra domanda.
Velia Perché, perché secondo lei i ragazzi sono così lontani dal provare sentimenti? La gloria effimera di un “like” rende tutto lecito? Di chi è la responsabilità di questa dissociazione da se stessi? In che modo noi genitori, noi adulti, possiamo ancora “emozionare” i nostri figli e aiutarli a sviluppare la loro empatia?
Ancora una volta il professore mi riporta alla capacità critica, di
discernimento, questa volta tra il reale e il virtuale.
Fabris Non credo che i più giovani abbiano rinunciato alle emozioni: anzi, sono forse più fragili ed esposti al potere che le emozioni stesse hanno. Le vivono però in maniera diversa. Ciò che spesso a loro manca è la capacità di distinguere il mondo reale dall’esperienza virtuale. Per questo – perché non sempre percepiscono la durezza del reale e l’irreversibilità delle azioni che proprio in quel reale vengono compiute – talvolta si trovano a vivere scene terribili come se si trovassero in un film. Ecco questo è un altro compito dell’educazione oggi, e più specificamente dell’etica della comunicazione, far capire che bisogna tenere distinti i vari livelli di realtà, e che ciò che viene vissuto nella virtualità è diverso da ciò che è reale, sebbene possa avere conseguenze ben precise – e talvolta molto gravi – anche sulla realtà stessa.
Tenersi per mano nel mare mosso della Rete
Sono d’accordo: noi adulti che “educhiamo” dobbiamo insegnare la differenza tra reale e virtuale e i fili ingarbugliati che legano l’uno all’altro. Ma come fare? I rapporti familiari sembrano più difficili che mai, eppure oggi, i genitori aspirano a essere anche amici dei loro figli, cercando un dialogo che, però, spesso non funziona. L’adolescente, soprattutto se timido e con qualche difficoltà di inserimento, preferisce instaurare rapporti online: nelle chat è più facile superare l’imbarazzo e aprire il cuore.
Velia Come possiamo noi genitori entrare a far parte di quel mondo virtuale senza essere invadenti e rischiare ulteriori chiusure, per tenere per mano i nostri figli senza lasciarli soli in un mare che può essere anche molto mosso?
Fabris La famiglia è il primo luogo in cui avviene l’educazione al mondo e alle sue relazioni: quindi anche ai mondi e alle relazioni online. Spesso però i genitori sono impreparati all’impatto delle tecnologie, capillare e pervasivo, e oscillano fra permissivismo e proibizionismo, di frequente portati all’estremo. Bisogna dunque stabilire regole d’uso, e magari anche di non uso dei dispositivi digitali. Bisogna trovare il modo per lasciare aperta anche la possibilità di altre forme di relazione oltre a quelle virtuali. Ma per far ciò i genitori devono recuperare quella
autorevolezza – non sto parlando di cieca autorità, beninteso – che deriva loro dall’esperienza e dalla conoscenza del mondo.
Lo smartphone: uno strumento nelle mani delle persone
Mi fa riflettere quest’ultima risposta. Le
nuove tecnologie hanno allargato i nostri confini, in tanti casi li hanno aboliti, il mondo è dentro casa nostra costantemente, anzi dentro la nostra mano. E noi siamo nel mondo, costantemente online. Eppure l’educazione dei nostri figli “al mondo e alle sue relazioni” avviene in famiglia, tra le pareti intime delle nostre stanze, nell’interazione con loro, giovani ai quali portiamo la nostra esperienza del mondo e delle sue dinamiche, reali e virtuali.
È questa l’occasione che dobbiamo sfruttare per insegnar loro che cosa vuol dire una
relazione vera, anche quando passa per un canale virtuale, è qui che dobbiamo aiutarli a sviluppare la loro capacità critica, a percepire e riconoscere le loro emozioni reali, così che, arrivato il momento, il compito della scuola di aggiungere conoscenze sia più facile, anche con strumenti nuovi e potenzialmente pericolosi o controproducenti. È un’alleanza non solo tra insegnanti e studenti, ma anche tra genitori e insegnanti quella che dobbiamo favorire, con la competenza, con il confronto, con il dialogo, perché lo smartphone sia solo e sempre uno strumento nelle mani di persone consapevoli.
Mi vengono in mente le parole del pedagogista brasiliano
Paulo Freire “nessuno educa nessuno, nessuno educa se stesso; gli uomini si educano tra loro, con la mediazione del mondo”… ringrazio il professor Fabris che mi ha aiutato a ricordarle.