Sono trascorsi quattro mesi da quando, parallelamente alla pubblicazione del mio primo racconto per ragazzi, Verdolina scopre il mondo, ho cominciato a scrivere per questo blog.
Quando Valeria Crisafulli, direttrice editoriale della Edises, mi ha proposto di aiutarla a inaugurare e ad alimentare Occhicielo educare con le fiabe, la nuova collana per ragazzi che aveva in mente, mi sono tuffata con tutto il mio entusiasmo in questa nuova avventura “attorcigliata” intorno a un tema molto sentito e nel quale credo profondamente: l’educazione emotiva.
Inevitabile, nel partire per questo viaggio, mettere in valigia le esperienze personali, formative e professionali che mi hanno accompagnato nella mia crescita come essere umano determinato a fare della comunicazione il proprio lavoro.
E diretta conseguenza del bagaglio che porto con me come editor e come appassionata di linguistica è la mia “mania” per le parole.
Gli argomenti dell'articolo
Quando il linguaggio diventa lingua
Il linguaggio mi ha sempre affascinato, e non solo per le potenzialità comunicative che possiede e che ci consentono di entrare in relazione gli uni con gli altri per crescere e stabilire quelle connessioni umane che, a loro volta, plasmano le nostre connessioni neurali contribuendo allo sviluppo della nostra mente, come ci dice mirabilmente Daniel J. Siegel nella sua Mente relazionale.
No, non solo per questo. Il linguaggio mi affascina per la forma che assume nella lingua, una forma che può diventare una melodia di suoni per le orecchie o una sequenza limpida e scorrevole di caratteri per gli occhi. Sempre e comunque una forma – talvolta poetica – con un significato declinabile in sfumature di senso diverse, che scaturiscono direttamente dalla nostra mente permettendole di organizzare il pensiero e di metterlo in relazione con il mondo che vive fuori di noi.
Il rispetto per le parole
Sì, è vero, forse la mia più che una mania è un innamoramento per le parole. E poiché sono convinta che tra le più grandi espressioni dell’amore ci sia il rispetto, attribuisco a ciascuna di loro una grandissima importanza. Quando parlo, quando scrivo, ma innanzitutto quando penso, faccio ogni sforzo possibile per usarle con attenzione e pertinenza, le scelgo con cura e, anche nei momenti in cui ne interpreto il significato condiviso per renderle più mie, il mio tentativo costante è di non perderlo mai di vista, di non manipolarlo o, peggio, di trasformarlo in una etichetta senza profondità.
Non vi nascondo che mi arrabbio un po’ quando vedo parole maltrattate o usate senza garbo, svuotate, generalizzate o appiattite. Mi arrabbio invece parecchio quando mi accorgo che sono finalizzate alla creazione di categorie sterili e quasi sempre denigratorie. E qui non mi dilungo perché mi farei trasportare dallo sdegno e uscirei fuori tema.
Nessuna ambiguità per le parole dell’educazione emotiva
Voglio arrivare al punto. Da quando passo le mie giornate a leggere, scrivere e approfondire i temi legati alle nostre emozioni, mi sono accorta che esistono alcuni termini più usati di altri per discuterne e che per questa ragione vorrei definire “parole dell’educazione emotiva”. E non mi riferisco solo a quelle più direttamente legate all’argomento, come per esempio l’aggettivo “emotivo” o il sostantivo “emozione”, ma anche ad altre che, pur sembrando più marginali, sono invece strettamente legate a questo tema tanto trasversale, ampio e ricco di sfumature.
Ho notato, in particolare, che a volte viene fatta una certa confusione intorno al significato di alcuni termini molto centrali ed è per questo motivo che, con il proposito di esaminare le più importanti parole dell’educazione emotiva in altri articoli, a cominciare da “emozione” ed “emotività”, vorrei qui proporvi una breve riflessione che avevo pubblicato qualche tempo fa come post sulla pagina Occhicielo e alla quale vorrei ridare un po’ di attenzione.
Recuperare l’autorità come autorevolezza
Riguarda due parole di cui ultimamente si parla spesso, soprattutto in relazione alla scuola e all’insegnamento: “autorità” e “autorevolezza”.
Dalle voci che provengono dalle classi e che attraverso i numerosi media di cui disponiamo rimbombano nelle nostre case, appare chiaramente che troppo spesso gli insegnanti fanno grossa fatica a vedere riconosciuta la propria autorità in classe e fuori. Con disastrose ed evidenti conseguenze su un corretto e ottimale svolgimento delle attività didattiche ed educative.
Il tema è così sentito che se ne discute continuamente sul web, sulla carta stampata, in televisione, nei libri. E non tutte queste discussioni si traducono in chiacchiere da bar, anzi. Di frequente i media ci offrono la possibilità di conoscere il parere di persone che hanno dedicato anni di studio e ricerche alle problematiche legate all’educazione, continuando a farlo con passione e competenza, felici di poter far conoscere i risultati dei loro sforzi e, quando possibile, di offrire dei consigli pratici per arrivare a delle soluzioni.
Ed è al parere di questi esperti (ne ospiteremo anche noi sul nostro blog) che rimando la vostra attenzione se volete dei suggerimenti operativi, perché ho troppo rispetto per le parole e per i loro significati – e a dire il vero anche per l’esperienza che si costruisce in anni di duro lavoro e studio – per sfruttare questo spazio comunicativo di cui ho la fortuna di disporre al fine di mettere in fila quattro consigli pratici che avrebbero grosse probabilità di tradursi in enormi banalità.
Non può esserci educazione emotiva senza autorità
A partire da una osservazione che lo psicologo Mario Polito fa nel suo testo Educare il cuore, vorrei invece condividere con voi una riflessione che parte da una considerazione linguistica – e quindi molto più nelle mie corde – sul termine “autorità”. Perché sono convinta che conoscere il significato delle parole sia il primo passo per una maggiore consapevolezza su qualsiasi tema, indispensabile per parlarne, per cercare delle soluzioni pratiche e, sopratutto, per riuscire a trovarle.
L’autorità secondo Mario Polito
“Il termine autorità deriva dal verbo latino augere che vuol dire “far crescere”. L’autorità ha una dimensione formativa quando è posta al servizio della crescita dei nostri studenti: quando stimola in loro il rispetto delle regole comunitarie, l’abbandono della illusione narcisistica di onnipotenza, l’autocontrollo delle proprie pulsioni, la considerazione dell’altro come noi stessi, con bisogni, desideri e aspettative come le nostre.”
Quando l’autorità diventa autorevolezza
Trovo significativo il fatto che il termine “autorità” affondi le sue radici nel concetto di “far crescere”, in cui non è coinvolta solo l’entità che cresce, ma anche quella che assiste la crescita, la segue, cerca di favorirla e di farle raggiungere la piena maturità, che cioè si prende cura dell’intero processo di crescita e di chi ne è protagonista.
E prendersi cura di qualcuno non significa solo trattarlo con affetto o provvedere ai suoi bisogni primari, ma soprattutto perseguire il suo bene, anche quando ciò significa rimproverarlo o correggerlo per stabilire limiti e regole.
È possibile essere fermi senza mancare di rispetto all’altro e tenendo conto delle sue emozioni. Educazione emotiva in classe non significa arrendevolezza e accondiscendenza, ma piuttosto attenzione a che la necessaria autorità assuma la veste di una ferma autorevolezza e mai quella di uno sterile dominio.
Per continuare a riflettere sulle parole dell’educazione emotiva
È un mio proposito continuare a riflettere sulle parole dell’educazione emotiva. E per farlo nel migliore dei modi mi aiuterò studiando e approfondendo il pensiero di chi di emozioni si occupa da più prospettive. Se volete accompagnarmi in questo viaggio di scoperta e condividere con me i risultati, lasciate i vostri commenti in questo blog, con le vostre riflessioni personali o con le indicazioni le bibliografiche che ritenete interessanti. Le apprezzerò moltissimo.